sabato 3 maggio 2014

i diaconi devono essere uomini di buona reputazione, stimati all’interno della comunità cristiana ma anche “pieni di Spirito e di saggezza” (v. 3).


Nel momento in cui la comunità cristiana si estende a livello numerico, sorge la necessità della gestione di tutto quell’ambito rappresentato dalla carità e dai servizi assistenziali; un ambito che in un primo momento - quando la comunità cristiana non era eccessivamente grande - era gestito direttamente dagli Apostoli. La cassa comune della comunità cristiana era tenuta infatti dagli Apostoli che da lì attingevano per le necessità dei più poveri. Ma con la crescita numerica, e la conseguente espansione della comunità, gli Apostoli non possono più occuparsi di questo problema, senza il rischio di perdere di vista altri aspetti più essenziali del loro ministero. Da qui nasce il gruppo dei diaconi, a cui viene affidato lo specifico ministero del servizio della carità.
Il modo con cui i diaconi vengono scelti dimostra una netta maturazione nel discernimento degli Apostoli. Quando, dopo l’Ascensione, il gruppo apostolico si trova nella necessità di sostituire Giuda Iscariota, per coprire quel posto da lui lasciato vuoto, gli Atti raccontano di una scelta compiuta tirando a sorte, sulla base di una caratteristica ineludibile per un Apostolo: la testimonianza del Cristo risorto. Ora la situazione sembra notevolmente cambiata, e la scelta si basa non più sul tirare a sorte, bensì su un discernimento che presuppone una grande maturità di fede. Infatti, i diaconi devono essere uomini di buona reputazione, stimati all’interno della comunità cristiana ma anche “pieni di Spirito e di saggezza” (v. 3). Questo dimostra come già in questa fase la comunità ha già acquisito il discernimento spirituale: la capacità di cogliere l’azione dello Spirito nel cammino di un battezzato è sinonimo senz’altro di grande maturazione. 
Don Vincenzo Cuffaro
At 6,1-7 “Scelsero sette uomini, pieni di Spirito Santo”
Salmo 32 “Volgiti a noi, Signore: in te speriamo”
Gv 6,16-21 “Videro Gesù che camminava sul mare”

venerdì 2 maggio 2014

Il cristiano non trova la sua felicità nel servire Dio nelle cose gradevoli, nella gioia gratificante o nel gusto insito nell’atto stesso di servire Dio. Il cristiano trova la sua gioia nell’adesione a quello che Dio decreta momento per momento sia che sia gradevole, sia che non lo sia. I


La comunità cristiana viene ancora presentata e dipinta sotto i nostri occhi attraverso il brano odierno degli Atti, che riporta una seduta del sinedrio e in essa un intervento risolutivo di un fariseo, dottore della Legge, di nome Gamaliele. Il suo intervento ci permette di cogliere, come in controluce, una caratteristica fondamentale della comunità cristiana. In controluce in quanto Gamaliele non aderisce alla comunità cristiana, e perciò solamente in modo indiretto le sue parole rivelano una verità collegata alla natura stessa del cristianesimo, cioè quella di essere una pianticella piantata da Dio e non un’invenzione umana. Anche se personalmente Gamaliele non aderisce alla comunità cristiana, egli non aderisce nemmeno alla politica persecutoria del sinedrio e nel suo intervento viene enunciato un importante principio di discernimento. Il principio di discernimento a cui ci riferiamo è il seguente: qualunque iniziativa umana è destinata a cadere da sola, col tempo e senza bisogno di persecuzioni; questo principio Gamaliele lo conferma attraverso l’esperienza della storia recente, nella quale si dimostra che tutti coloro che sono comparsi sulla scena d’Israele parlando nel nome di Dio, ma senza essere stati mandati da Lui, sono finiti nel nulla insieme ai loro seguaci. Non è invece possibile che una pianticella piantata da Dio, possa essere sradicata dall’ostilità umana. Si vede chiaramente come Gamaliele prenda le distanze nel momento in cui dice: “Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio” (v. 39). Non vi accada. Non dice: non ci accada. Egli è già lontano da questa prospettiva persecutoria, non perché abbia aderito alla comunità cristiana, né perché abbia riconosciuto Cristo come Messia, ma semplicemente perché il tempo avrebbe dato il suo infallibile responso. E la smentita della storia è la più cocente, per chi si trova dalla parte del torto.
Questo ci permette di spingere lo sguardo al di là delle parole di Gamaliele per riconoscere nella comunità cristiana, e nella vita della Chiesa, un germoglio che non può essere sradicato da nessuna tempesta; questa è un’altra ragione per cui nel vocabolario del cristiano la parola “scoraggiamento” non si trova: perché non esiste. La Chiesa può essere perseguitata, può essere oscurata, può essere impoverita dal peccato dei suoi membri, ma rimane una proprietà di Dio, rimane nella sua identità di Sposa uscita dal costato del Messia Crocifisso. Per quanto possa essere soffocata dagli eventi esterni, o dalla mancanza interna di santità, in un momento in cui nessuno se l’aspetta essa può sempre rifiorire, non essendo umana la sua origine. Mentre, secondo il consiglio di Gamaliele, quelli che combattono contro Dio sono destinati a fratturarsi cozzando contro la Roccia di Sion. Ma questo è vero anche all’interno stesso della vita della Chiesa: tutte le pianticelle che non sono piantate da Dio sono destinate a morire (cfr. Mt 15,13) e le iniziative di quelli che parlano nel nome del Signore, senza essere stati mandati da Lui, sono destinate allo stesso epilogo di Teuda e di Giuda il Galileo: la morte per loro e la dispersione dei loro seguaci. Non così per le comunità legittime, non così per coloro che parlano nel nome di Cristo, essendo stati legittimamente mandati da Lui.
C’è ancora un altro versetto chiave che occorre mettere in evidenza: i discepoli, dopo essere stati fustigati, se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. Questa caratteristica ci riconduce ad un altro aspetto della libertà dei cristiani. Il cristiano non trova la sua felicità nel servire Dio nelle cose gradevoli, nella gioia gratificante o nel gusto insito nell’atto stesso di servire Dio. Il cristiano trova la sua gioia nell’adesione a quello che Dio decreta momento per momento sia che sia gradevole, sia che non lo sia. I discepoli, che vengono fustigati e subito dopo rilasciati, dimostrano che per loro servire Cristo non coincide con una qualche gratificazione connessa a ciò che essi hanno fatto; per loro, servire Cristo è essere felici di compiere quello che Lui vuole, anche se si trattasse della fustigazione e del disonore. Questa è una condizione di libertà che consente al cristiano di vivere con uno spirito superiore, indifferente nei confronti del successo e indifferente nei confronti del fallimento, considerati da lui come due impostori. L’unica cosa reale è che Cristo, in questo momento, mi chiede questo, e questo io gli offro, sia che mi piaccia sia che non piaccia alla mia sensibilità. So bene, infatti, che non è questo che conta: quello che conta è l’amore per Gesù Cristo, per cui si è felici anche nell’essere oltraggiati per il suo nome. Questa è la libertà stupenda del cristiano!
Don Vincenzo  Cuffaro

giovedì 1 maggio 2014

il cristiano non si sente suddito di nessuna istituzione umana, di nessuna autorità terrestre; tuttavia, ubbidisce alle leggi umane nella misura in cui esse riflettono la volontà di Dio, e si sente libero di trasgredirle nel momento in cui esse si ponessero contro Dio e contro l’uomo.


Non c’è dubbio che nel contesto prossimo del brano degli Atti, l’Apostolo voglia sottolineare, per contrasto, che il dono dello Spirito può essere dato solo a coloro che si sottomettono a Dio, intendendo dire, tra l’altro, che tale sottomissione a Dio esclude la sottomissione ad ogni autorità umana che non ne rifletta la divina volontà. Lo Spirito Santo non può riempire la persona che vive da suddito, o da schiavo delle cose di quaggiù. Si è liberi soltanto quando ci si sottomette a Dio in questi termini rappresentati da Pietro stesso, e dal suo esempio personale (che illustra da quale genere eroico di sottomissione a Dio derivi il dono dello Spirito Santo): “di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a Lui” (v. 32). Il suo rifiuto di sottomettersi ad un’autorità umana, che si pone contro Dio, commenta nel migliore dei modi l’inautenticità di una sottomissione come può essere la sudditanza a ciò che è umano, il che è sempre umiliante: il cristiano non si sente suddito di nessuna istituzione umana, di nessuna autorità terrestre; tuttavia, ubbidisce alle leggi umane nella misura in cui esse riflettono la volontà di Dio, e si sente libero di trasgredirle nel momento in cui esse si ponessero contro Dio e contro l’uomo. Questa è la sottomissione che ottiene da Dio il dono dello Spirito, una sottomissione come un servizio fatto unicamente a Dio, una sottomissione nobile ed elevata, a differenza della sottomissione ai poteri umani, sempre e comunque umiliante, in quanto non può essere che servile. Il dono dello Spirito comunque è dato a chi ha il coraggio di obbedire a Dio al di là delle istituzioni e dei poteri umani.  
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 30 aprile 2014

Per Giovanni la verità “si fa”. Ciò significa che “essere veri” conta di più che “dire il vero”. Si potrebbe conoscere il vero con esattezza e dire il vero con altrettanta esattezza, senza che ciò abbia alcuna influenza sulla propria vita.


Chi ha impostato la sua vita in modo da non aver bisogno della complicità delle tenebre, è spontaneamente e dolcemente attirato dalla luce: “chi opera la verità, viene alla luce” (v. 21). Notiamo qui anche un’opposizione tipicamente giovannea: “chiunque fa il male… chi opera la verità”. Ci si sarebbe aspettati che il secondo termine fosse “chi opera il bene”. Per Giovanni, infatti, il termine che si oppone al “male”, non è il “bene” ma la verità. Tra l’altro, la verità riguarda l’operare e non il conoscere o il dire: “chi opera la verità”. Questo fa certamente saltare tutte le nostre categorie moderne, dove la verità “si dice” e il bene “si fa”. Per Giovanni la verità “si fa”. Ciò significa che “essere veri” conta di più che “dire il vero”. Si potrebbe conoscere il vero con esattezza e dire il vero con altrettanta esattezza, senza che ciò abbia alcuna influenza sulla propria vita. E’ la condizione dei farisei che si sono seduti sulla cattedra di Mosè: essi “dicono” il vero, ma non sono capaci di “essere veri” (cfr. Mt 23,1-3). Così molti si illudono di essere sinceri, solo perché dicono quello che pensano, ma non riflettono sul fatto che se la vita non è illuminata dalla grazia, anche il pensiero si oscura. E con esso la parola che pretende di essere “sincera”. Giovanni dice che la verità “si fa”, perché solo chi vive nella luce, pronuncia parole di luce. Tutti gli altri, pur essendo sinceri, non fanno che comunicare il buio che hanno dentro.
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 29 aprile 2014

è lo Spirito che unisce e che crea un canale di comunicazione invisibile ed interiore; per questo le parole diventano efficaci, e la comprensione profonda diventa finalmente possibile.


Il contrasto, risolto dalla fede, si gioca tra la moltitudine e l’unità: “pur essendo molti - dirà l’apostolo Paolo - siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5). Gli Atti, anche prima di questo capitolo, hanno posto l’accento sul fatto che la novità della rinascita consiste in una umanità che ritrova la sua unità profonda. Il capitolo 2 degli Atti è in un certo modo parallelo al capitolo 4; nel capitolo 2, dove si narra l’evento della Pentecoste, accade che l’annuncio di Pietro, sebbene formulato nella sua lingua madre (l’aramaico) è compreso da tutti e da ciascuno nella propria lingua. Aldilà del carisma della glossolalia, tutto questo dimostra come nei processi della comunicazione umana noi non ci comprendiamo reciprocamente per il fatto d’esprimerci in una lingua nella quale usiamo tutti le stesse parole. L’intesa e la comprensione non derivano da questo: è lo spirito delle parole, lo spirito nel quale sono pronunciate le parole, ciò che ci permette di comprenderci o di rimanere stranieri usando le stesse parole. Il fatto di utilizzare un vocabolario comune non è garanzia di comprensione e d’intesa reciproca, tanto è vero che, alla presenza di linguaggi diversi, nel giorno di Pentecoste tutti comprendono: è lo Spirito che unisce e che crea un canale di comunicazione invisibile ed interiore; per questo le parole diventano efficaci, e la comprensione profonda diventa finalmente possibile.
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 28 aprile 2014

la comunità cristiana si rivela come il luogo della solidarietà che non è soltanto una solidarietà di ordine umano e materiale (benché sia anche questo) ma soprattutto è una solidarietà nella preghiera


Il testo degli Atti riporta un momento di particolare tensione attraversato dalla comunità cristiana perseguitata proprio in concomitanza con la carcerazione di Pietro e di Giovanni. Quando i due Apostoli sono rimessi in libertà, vengono accolti dalla comunità cristiana che si raduna per invocare l’aiuto di Dio e ottenere da Lui il sostegno nel tempo della prova. Questo è un primo punto essenziale in cui la comunità cristiana si rivela come il luogo della solidarietà che non è soltanto una solidarietà di ordine umano e materiale (benché sia anche questo) ma soprattutto è una solidarietà nella preghiera, perché la certezza di fede accompagna la comunità cristiana nel suo cammino storico e le assicura che Cristo è presente là dove il suo nome è invocato. Una cosa è l’aiuto e il sostegno umano, offerto in forza delle proprie risorse, ben altra cosa è invocare la presenza di Cristo e attendere da Lui l’aiuto. La comunità cristiana si raduna perché percepisce di trovarsi dinanzi ad una prova più grande delle proprie forze, e quando si raduna in preghiera fa un’esperienza singolare della presenza di Dio in mezzo ad essa
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 27 aprile 2014

La pace che il Risorto offre alla comunità dei discepoli è la riconciliazione con Dio, ossia l’ingresso effettivo nella sua paternità. Il recupero dell’amicizia di Dio risana il cuore umano e lo mette in grado di vivere relazioni sane con tutti.


Le domeniche del tempo di Pasqua sono caratterizzate dai racconti evangelici delle apparizioni del Risorto e dai quadri della vita delle prime comunità cristiane, così come vengono a delinearsi negli Atti degli Apostoli. A ciò si aggiunge, come di consueto, la riflessione dell’Apostolo, costituita dalla seconda lettura. La liturgia odierna prende le mosse da due apparizioni del Risorto nel cenacolo, sottolineando i doni derivanti dalla risurrezione, che Cristo effonde sulla comunità dei discepoli. La prima lettura descrive lo stile della prima comunità cristiana di Gerusalemme e la seconda lettura commenta la rinascita battesimale, ossia l’inizio sacramentale della risurrezione individuale, primo dono del Risorto. Le tematiche pasquali si collegano variamente nelle letture odierne: la beatitudine di credere in Cristo, senza averlo visto, ricorre sia nel vangelo, nel discorso di Gesù a Tommaso, sia nella seconda lettura. Il mandato in favore della Chiesa, che gli Apostoli ricevono da Gesù nel vangelo, viene ripreso nella prima lettura, dove la prima comunità è assidua nell’insegnamento apostolico. Alla luce di queste corrispondenze si può risalire alla logica con cui i brani odierni sono stati accostati. Si tratta in sostanza di un itinerario che da Gesù conduce alla Chiesa, mediante il ministero apostolico. La presenza del Risorto in mezzo ai discepoli è un’esperienza di pacificazione: la parola “pace” ricorre tre volte sulle labbra di Cristo (cfr. vv. 19.21.26). Ma Egli non intende l’assenza di conflitti. La pace che il Risorto offre alla comunità dei discepoli è la riconciliazione con Dio, ossia l’ingresso effettivo nella sua paternità. Il recupero dell’amicizia di Dio risana il cuore umano e lo mette in grado di vivere relazioni sane con tutti. Una tappa essenziale del risanamento del cuore umano è costituita dall’accoglienza del dono dello Spirito. Nel caso degli Apostoli, questo fatto riveste una notevole importanza nei riguardi della Chiesa: solo degli uomini totalmente riconciliati e risanati nel cuore possono riconciliare e risanare la Chiesa. Così al “Ricevete lo Spirito Santo” (v. 22), Gesù aggiunge: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati” (v. 23). Ecco perché la lettura degli Atti descrive la prima comunità cristiana come una comunità riconciliata e radunata intorno agli Apostoli. La riflessione teologica dell’Apostolo Pietro collega la nostra risurrezione alla risurrezione di Gesù. Il Padre, infatti, “ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù” (v. 3). Pietro si riferisce, in primo luogo, alla rinascita battesimale, ma si riferisce anche alla totalità della speranza cristiana, che va ben aldilà dello sviluppo del battesimo in questa vita. Pietro parla anche di beni custoditi nei cieli per noi, custoditi da Dio, certamente, ma attraverso la nostra fede (cfr. v. 5). Ciò significa che chi non ha fede, disperde le proprie ricchezze celesti. Dall’altro lato, la fede – ricchezza che custodisce tutte le altre –, come l’oro, ha bisogno di passare per il crogiolo, e perciò è inevitabile che i cristiani siano “afflitti da varie prove” (v. 6), fino al conseguimento della “gioia indicibile e gloriosa” (v. 8), che è la meta della nostra fede.
Don Vincenzo Cuffaro