sabato 22 febbraio 2014

L'atteggiamento di interiore ed esteriore costante conversione e riforma non significa disprezzo verso le forme tradizionali del costume ecclesiastico e quelle popolari e semplici della vita dei fedeli.


"Conferma, o Padre, nella fede e nell'amore, la tua Chiesa, pellegrina sulla terra". Così recita la Preghiera eucaristica m, riferendosi alla realtà "pellegrinante" della Chiesa in cammino verso il regno di Dio.
La vigilanza è virtù tipica del pellegrino: attenzione alla scelta del cammino, cura di non attardarsi, prontezza nel riprendersi dopo le soste, sguardo interiore teso verso la mèta. La Lettera agli Ebrei, nel capitolo 11, passa in rassegna i grandi pellegrini dell'Invisibile, da Abele a Enoch a Noè, ad Abramo che "obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità" (v. 8), a Mosè che "per fede lasciò l'Egitto, senza temere l'ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l'invisibile" (v. 25).
La Chiesa è l'insieme di tutti questi pellegrini e deve caratterizzarsi per le virtù di scioltezza, di distacco, di prontezza a riprendersi, a convertirsi a riformarsi che sono proprie di un pellegrino. "Carissimi io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima", dice Pietro (1 Pt 2,11) ricordando le conseguenze ascetiche del sapersi in cammino verso la patria.
L'atteggiamento di interiore ed esteriore costante conversione e riforma non significa disprezzo verso le forme tradizionali del costume ecclesiastico e quelle popolari e semplici della vita dei fedeli. Riforma non significa contrapposizione tra chi la propugna e chi la subisce, tra chi si atteggia a riformatore e la persona o l'istituzione che si pensa debba essere riformata. E' invece consonanza degli uni e degli altri nel desiderare l'unico Signore: "Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!" (Ap 21,17). 

venerdì 21 febbraio 2014

E' necessario creare una cultura della vigilanza, capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione, della rivalsa, dell'autoconsolazione, della chiusura in se stessi a doppia mandata.


Oggi si prospetta una grande sfida da cui dipendono le sorti prossime venture del nostro Paese. E' necessario creare una cultura della vigilanza, capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione, della rivalsa, dell'autoconsolazione, della chiusura in se stessi a doppia mandata.
L'interrogativo che ci deve in qualche modo mobilitare può essere formulato così: come recuperare una pedagogia della vigilanza diffusa? E' stato detto negli anni scorsi che bisognava passare da una stagione dei diritti a una dei doveri; ora è il momento delle responsabilità. Ciò significa, per esempio, sotto l'aspetto civile che ci interessa, rendersi attivi, non aspettando che lo Stato o gli altri si muovano, informandosi e facendo valere ragionevolmente le proprie istanze.
Due anni fa, per esempio, è stata promulgata una Legge (n. 241/1990) che forse pochi conoscono e ancor meno mettono in pratica. Eppure si tratta, dopo tante parole, di una vera, pur se piccola, rivoluzione: essa stabilisce le "nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi". Gli uffici pubblici non dovrebbero essere più luoghi verso cui nutrire riverenza o paura, oppure centri di potere da cui ottenere favori. Ovviamente la libertà costa fatica e va quotidianamente conquistata.
La stagione delle responsabilità coinvolge ancor più direttamente le cosiddette nuove soggettualità sociali (cf Centesimus annus, n. 49); accanto alla citata Legge sul procedimento amministrativo, abbiamo la normativa sulle autonomie locali (Legge 142/1990), che offre ampie possibilità, con Statuti e Regolamenti, di partecipazione della gente di un territorio alla vita e al bene comune; pure il volontariato (con la Legge 266/1991) e le cooperative sociali (con la Legge 381/1991) sono oggi riconosciuti quali nuovi soggetti sociali, dotati di autonomia statutaria e funzionale, di specificità e originalità nell'intervento. Le leggi riconoscono e valorizzano il ruolo fondativo e insostituibile di promozione, di attuazione e di gestione del bene comune. E' compito della vigilanza il sollecito impulso perché questi spazi (oltre quelli tradizionali dello Stato e del mercato) non restino deserti; essi più che altri possono descrivere e ridescrivere una convivenza fraterna, non condominiale, fondata non solo e non tanto sull'essere soci quanto e soprattutto sull'essere "prossimi".

giovedì 20 febbraio 2014

La vigilanza nell'attesa del futuro affranca, infatti, il cuore dalla servitù del presente (del successo, del danaro, della fama) e permette di vivere l'oggi con rispetto verso l'altro.


Per quale motivo la vigilanza, cioè la trepida attesa del Signore che viene, genera un'etica della responsabilità rispetto alle cose di questa terra, in particolare rispetto ai problemi e agli impegni della vita sociale e politica?
Perché la percezione che l'Amore di Dio intimamente presente in ogni cosa, universalmente all'opera nel creato e luminosamente trasparente in ogni valore è prossimo a manifestarsi nella mia vita e nella storia, mi libera dalla paura di dispiacere e dall'ansia di piacere agli altri, dall'ossessione del loro plauso, dal miraggio di un successo mondano fatto di potere o di denaro. Si attua nel mio cuore una libertà rispetto al godimento delle cose di quaggiù che viene dall'anticipata presenza, nella speranza e nell'attesa, del godimento pieno e definitivo della bontà e bellezza di Dio.
Il nuovo slancio dato alla vita mediante lo sguardo rivolto all'eternità scioglie dagli impacci delle convenzioni permette uno sguardo e un agire libero rispetto ai beni, alle istituzioni, allo stesso consenso sociale. E chi ha responsabilità politiche non sarà schiavo del consenso sociale, bensì un "ministro", cioè un saggio servitore, preoccupato del bene di tutti.
La vigilanza nell'attesa del futuro affranca, infatti, il cuore dalla servitù del presente (del successo, del danaro, della fama) e permette di vivere l'oggi con rispetto verso l'altro. E una mentalità, prima ancora che una serie di comportamenti concreti; è un atteggiamento di responsabilità e di attenzione per la cura della cosa pubblica. C'è da chiedersi in che modo un abituale disinteresse per il bene comune scoraggi i cittadini e i responsabili della cosa pubblica. Ci si può pure domandare come sia possibile sottrarsi alla deriva dell'interesse egoistico e della faziosità - che inducono a disgregazione nel tessuto politico e sociale - quando la formazione del consenso è sistematicamente perseguita attraverso la vischiosità di legami clientelari o pressioni di carattere corporativo.
Ci troveremmo oggi così amareggiati e indignati per tante situazioni incresciose che offuscano la nostra vita politica e amministrativa, se fossimo stati un pò più vigili, se avessimo alzato lo sguardo, allargando gli orizzonti oltre le comodità o l'interesse immediato? Ciascuno è chiamato a interrogarsi, a mettersi in discussione, a chiedere conto a se stesso delle proprie eventuali responsabilità, non solo attive, ma pure di omissione o di semplice distrazione. Vediamo qualche esempio.

mercoledì 19 febbraio 2014

liberi della libertà dei figli di Dio, possiamo scegliere di dare tempo a Lui che ci dedica il suo eterno tempo per realizzare la nostra vita secondo il suo progetto e compierla nell'incontro con Gesù, il Signore.


Se la vigilanza cristiana mira a preparare giorno dopo giorno l'incontro con il Signore che viene, esige pure una saggia attenzione a quanto può distoglierci da questo ideale, in particolare alle "seduzioni", che, più insidiose delle comuni tentazioni, sono come forti attrazioni che nascondono l'inganno.

Esse si possono ricondurre all'istinto del godimento, del possesso, del prestigio e del potere (cf 1 Gv 2,16), strettamente connessi tra loro e interdipendenti (cf 1 Gv 2,16; cf anche Mt 4,1-11; Mc 1, 12-13; Lc 4,1-13). Il godimento, ricercato come fine in se stesso e senza alcuna regola fuorché quella di godere il più possibile; la ricchezza, avidamente accumulata, posseduta e goduta; l'ambizione e la superbia, sempre a caccia di consenso, di prestigio e di successo, quali premesse per garantire il potere di asservire altri e manipolarli a mio uso e consumo. Questi atteggiamenti culturali e comportamentali non sono estranei neppure a una certa pratica religiosa, alle devozioni e alle oblazioni: si può, infatti agire come se Dio, la Madonna e i Santi esistessero per soddisfare le nostre esigenze. Non si pensi che le attrazioni siano tipiche di alcune categorie di persone, poiché ciascuno di noi vi è esposto.
Siamo chiamati a vigilare per dominarle, in modo che, liberi della libertà dei figli di Dio, possiamo scegliere di dare tempo a Lui che ci dedica il suo eterno tempo per realizzare la nostra vita secondo il suo progetto e compierla nell'incontro con Gesù, il Signore.
La vigilanza si attua nelle diverse forme di rinuncia, sia a ciò che è illecito, sia - con la dovuta discrezione - a qualcosa che di per sé sarebbe lecito. E' utile abituarsi a piccole rinunce al fumo, ai dolci, alle bibite, alla televisione, a lunghe e superficiali conversazioni telefoniche, a letture dispersive, a spese superflue nel cibo e nell'abbigliamento, ecc. Una simile ascesi giova pure al sistema nervoso, unifica la mente, aiuta il raccoglimento nella preghiera.

martedì 18 febbraio 2014

e Dio non serve a esaudire la mia voglia di benessere, a soddisfare le mie esigenze, a compiere i miracoli che mi procurano successo, carriera, prestigio e potere, quale senso ha il suo esistere?


"Siate temperanti e vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare" (1 Pt 5,8-9). La Liturgia delle Ore ci fa leggere ogni martedì nella Compieta questa ammonizione che ci introduce nell'aspetto ascetico della vigilanza.
Vogliamo comprenderla a partire dal "disordine" espresso dall'affermazione "Non ho tempo". Non ho tempo di pensare al "tempo" di Dio perché il tempo è "mio", come mia è la vita, la natura, le cose, il denaro, Dio stesso; tutto è mio! Io sono il padrone e tutto uso e consumo a mio piacere.
Se Dio non serve a esaudire la mia voglia di benessere, a soddisfare le mie esigenze, a compiere i miracoli che mi procurano successo, carriera, prestigio e potere, quale senso ha il suo esistere?
non ho tempo di pensare ad altro che a farmi il "mio" regno, perché chi mi garantisce che ci sia il cosiddetto regno di Dio, per raggiungere il quale dovrei dedicare tempo e vigilanza?
Tali domande ispirano la cultura e il comportamento della società secolaristica che ha relegato Dio tra le cose da usare: sono domande e pensieri che si possono ben qualificare come "seduzioni di satana".
Nel Rito delle promesse battesimali che si rinnovano ogni anno nella Veglia Pasquale è posta la domanda: "Rinunci a satana, alle sue opere e alle sue seduzioni?".


C M Martini

lunedì 17 febbraio 2014

Vivere la spiritualità dell'attesa è vivere la dimensione contemplativa nella profonda consapevolezza dell'assoluto primato di Dio sulla vita e sulla storia.



Chi, credendo alla promessa di Dio rivelata nella Pasqua, attende il ritorno del Signore e si sforza di vivere nell'orizzonte della speranza che non delude, sperimenta la gioia di sapersi amato, avvolto e custodito dalla Trinità santa. Come le vergini sagge della parabola (cf Mt 25,1-13), egli attende lo Sposo, alimentando l'olio della speranza e della fede con il cibo solido della Parola, del Pane di vita e dello Spirito santo che nella Parola e nel Pane si dona a noi.
Vivere la spiritualità dell'attesa è vivere la dimensione contemplativa nella profonda consapevolezza dell'assoluto primato di Dio sulla vita e sulla storia. Perciò l'atteggiamento spirituale della vigilanza è un continuo riferire al Signore che viene la propria vita e la vicenda umana, nella luce della fede che ci fa camminare da pellegrini verso la patria (cf Eb 11) e ci permette di orientare a essa ogni nostro atto.
Il totale orientamento del cuore a Dio colma la persona della letizia e della pace proprie di chi vive le beatitudini (cf Mt 5,1-11, Lc 6,20-23). Essa non sperimenta naturalmente la beatitudine di chi si sente arrivato, bensì quella umile e fiduciosa di chi, nella povertà e nella sofferenza, nella mitezza e nella sete di giustizia, nella custodia del cuore e nel costruire rapporti di pace, si sa sostenuto dall'amore del Signore che è venuto, viene e tornerà nell'ultimo giorno.
La spiritualità dell'attesa esige quindi povertà di cuore per essere aperti alle sorprese di Dio, ascolto perseverante della sua Parola e del suo Silenzio per lasciarsi guidare da lui docilità e solidarietà con i compagni di viaggio e i testimoni della fede, che Dio ci affianca nel cammino verso la mèta promessa. La vigilanza nutre il senso della Chiesa, nella compagnia della fede e della speranza con quanti camminano con noi verso la celeste Gerusalemme.
Carlo Maria Martini

domenica 16 febbraio 2014

essa dimostra la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico


Vivere nell'attesa del ritorno del Signore non è fuga dalla storia; 
è vivere ancora più pienamente la storia nell'orizzonte del suo destino ultimo.
L'atteggiamento evangelico della vigilanza fonda così un'etica del discernimento: 
chi attende il Signore si sa chiamato a vivere responsabilmente ogni atto alla presenza del suo Dio, 
e comprende che il valore supremo di ogni scelta morale sta nello sforzo di piacere a Dio e di santificare il suo Nome compiendo la sua volontà.
Dio, quale orizzonte ultimo e patria vera, diviene il criterio della decisione morale; 
il discernimento di ciò che è penultimo rispetto a ciò che è ultimo e definitivo si offre come la forma concreta in cui si esercita la responsabilità etica.
Guardando al mistero pasquale come statuto della vigilanza cristiana, 
si potrebbe dire che, sotto il profilo morale, la speranza della risurrezione è la morte e risurrezione delle speranze umane: 
essa dimostra la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico. 
In questa luce, i temi decisivi del nascere e del morire si colorano del loro significato più profondo: nascere è essere chiamati a un destino di eternità, che a nessuno è lecito manipolare o pretendere di interrompere; 
morire è andare incontro al compimento di tale destino, 
con tutta la dignità dell'esercizio della libertà che ci è data, 
per piacere a Dio e santificarne il Nome 
nella gioia e nel dolore, 
nella vita e nella morte (10).