lunedì 2 giugno 2014

i discepoli non devono percepire le esperienze negative della vita come una privazione, anzi proprio in queste circostanze si apre lo spazio per un’azione rinnovatrice dello Spirito Santo; ma i discepoli devono anche sapere che lo Spirito Santo ha stabilito per Se stesso un limite preciso, che è quello della sfiducia, un limite che Lui certamente non varcherà.


At 16,22-34 “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”
Salmo 137 “Nella tua bontà soccorrimi, Signore”
Gv 16,5-11 “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”

I discepoli percepiscono la partenza di Gesù da questo mondo come una privazione e il loro cuore si riempie di tristezza. Questo fatto è ancora tanto giustificabile, in quanto lo Spirito Santo non è venuto; ma adesso che Egli ha riempito i cuori di Paolo e di Sila, li induce ad un atteggiamento ben diverso da quello tenuto dai Dodici nell’ultima cena. Eppure Cristo vorrebbe suggerire anche ai suoi discepoli, nell’ultima cena - sebbene lo Spirito Santo non si sia effuso ancora sulla Chiesa - quest’atteggiamento di ottimismo e di gioia, di fiducia incondizionata nonostante tutto, perché la sua partenza otterrà l’opera e la venuta dello Spirito Consolatore. È dunque la stessa cosa: i discepoli non devono percepire le esperienze negative della vita come una privazione, anzi proprio in queste circostanze si apre lo spazio per un’azione rinnovatrice dello Spirito Santo; ma i discepoli devono anche sapere che lo Spirito Santo ha stabilito per Se stesso un limite preciso, che è quello della sfiducia, un limite che Lui certamente non varcherà. Di fatto, solo gli irriducibili ottimisti, che fondano il loro ottimismo sulla fede, sperimenteranno la potenza di liberazione che emana dalla tomba vuota. Lo Spirito, quando verrà, compirà una triplice operazione: “convincerà il mondo quanto al peccato, quanto alla giustizia e quanto al giudizio” (v. 8). Lo Spirito convincerà il mondo: significa che riaprirà nelle coscienze il processo che si era chiuso con la condanna di Cristo. Lo Spirito Santo è il secondo Consolatore, che prolunga nella storia della Chiesa l’insegnamento di Cristo; ma con una differenza: mentre Cristo aveva parlato alle orecchie degli uomini con parola umana, lo Spirito svela alla coscienza dei discepoli quella medesima Parola nei suoi significati profondi. Così Egli guida la Chiesa alla verità tutta intera. Gesù continua dicendo: “Quanto al peccato, perché non credono in me” (v. 9); in altre parole, lo Spirito svelerà ai discepoli che altro è “il peccato” e altro sono “i peccati”. Il peccato al singolare consiste nel rifiuto del dono di salvezza gratuitamente offerto in Cristo. Il peccato del mondo consiste infatti nel ritenere di non essere bisognosi di salvezza e dunque risulta superflua l’Incarnazione del Verbo. Questa è la teologia dell’anticristo, l’antropologia falsificata dell’anticristo: non occorre un Salvatore, perché l’uomo si salverebbe da se stesso. I peccati invece sono i singoli gesti peccaminosi. Lo Spirito farà conoscere questa verità a coloro che si aprono a Lui: il peccato che separa da Dio non è tanto il singolo gesto peccaminoso – che in quanto gesto può avere luogo anche in una vita proiettata verso la santità - ma l’incredulità, la convinzione di esser già salvi in virtù di se stessi. Questo è proprio il peccato contro lo Spirito Santo, un peccato che non può essere perdonato, perché si sottrae volontariamente alla Misericordia.
E poi ancora: “quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più” (v. 10). La “giustizia” qui è l’accoglienza di Cristo presso il Padre nella gloria: laddove i tribunali umani hanno negato che Cristo potesse essere il Figlio, il Padre capovolge la sentenza, accogliendolo presso di Sé. La giustizia sarebbe l’innalzamento del Cristo alla destra del Padre. La giustizia è dunque la verità di Cristo come Figlio e dall’altro lato, per contrasto, è la rivelazione della falsa giustizia dei tribunali umani. Lo Spirito riaprirà nelle coscienze questo processo e indicherà il Cristo innalzato alla destra del Padre. Sarà dunque lo Spirito Santo che, riaprendo il processo a Gesù in ogni coscienza umana, indicherà la giustizia del Cristo e l’ingiustizia del tribunale umano. Quanto al giudizio, lo Spirito Santo preciserà che il giudizio di Dio non è stato pronunciato contro l’umanità, bensì contro il principe di questo mondo. Il vangelo di Giovanni non dice mai che Dio pronuncia un giudizio contro gli uomini; piuttosto, degli uomini che si perdono, si dice che essi si auto-escludono dalla salvezza, perché commettono il peccato di credersi autosufficienti e non bisognosi di Dio. Essi non sono giudicati da Dio, ma sono essi stessi ad escludersi, per scelta personale, dalla sfera della luce. C’è uno solo che nella croce è direttamente giudicato ed è il principe di questo mondo. Lo Spirito Santo darà ai credenti questa coscienza, nonostante l’apparente potenza che si sprigiona nell’azione di Satana nel mondo. Il dato di fatto è che il principe di questo mondo è stato buttato fuori. L’Apostolo Paolo, infatti, nella 1 Corinzi, al capitolo 15, dice che la vittoria totale contro Satana non si è ancora realizzata, perché c’è un tempo intermedio tra il giudizio pronunciato sul principe di questo mondo e la sua eliminazione dallo spazio del creato; ma durante questo tempo intermedio, nonostante la sua libertà di movimento, e i risultati che riesce a conseguire, lo Spirito dice alla nostra coscienza che egli è stato giudicato e detronizzato.  
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 1 giugno 2014

La tristezza deriva quindi dal giudizio umano sul disegno di Dio, che non è alla portata dei processi del nostro raziocinio, in quanto vuole darci molto di più, rispetto a quel bene che a noi sembra il massimo desiderabile


At 16,22-34 “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”
Salmo 137 “Nella tua bontà soccorrimi, Signore”
Gv 16,5-11 “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”

Nel brano evangelico odierno bisogna porre l’accento sulla sproporzione tra il disegno di Dio e lo stato d’animo conseguente al giudizio umano. Gli Apostoli compiono uno sbaglio di valutazione, e perciò si rattristano: “perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore” (v. 6). Gesù dice di essere sul punto di andar via e i discepoli si rattristano. Dal punto di vista dei discepoli la partenza di Cristo è una perdita, mentre dal punto di vista di Cristo, è un arricchimento per la comunità apostolica. Gli Apostoli non possono capire ancora; resteranno nell’ignoranza dei segreti di Dio, fino a quando non verrà lo Spirito a Pentecoste. Il loro errore è quello di giudicare con i loro criteri umani, il disegno di Dio che si sviluppa nella vita e nel ministero di Gesù. Per la loro umana sensibilità, rimanere accanto a Cristo, a tempo indeterminato, è la massima beatitudine pensabile; ma il Padre vuole dare loro molto di più: nel momento in cui Dio sottrae il Cristo storico dalla loro vista, in forza dello Spirito fa del gruppo apostolico un altro Cristo. Finché Cristo è con i discepoli, i discepoli sono con Cristo, ma quando Cristo se ne va, per la potenza dello Spirito i discepoli diventano Cristo: noi il suo Corpo, Lui il Capo. L’intimità, che abbiamo raggiunto con Lui, a partire dal giorno di Pentecoste, è infinitamente superiore all’intimità fisica della coabitazione, di cui i Dodici hanno fruito per circa tre anni. La tristezza deriva quindi dal giudizio umano sul disegno di Dio, che non è alla portata dei processi del nostro raziocinio, in quanto vuole darci molto di più, rispetto a quel bene che a noi sembra il massimo desiderabile. Siamo destinati a sbagliarci nella nostra valutazione di quel che Dio fa o permette, e siamo destinati a rattristarci proprio quando Lui sta preparando qualcosa di più. Qualcosa talmente superiore che la nostra mente e la nostra immaginazione si perdono nella nebbia della non-conoscenza. Il giudizio umano ci porta alla tristezza, perché l’insufficienza della nostra logica - quando viene assolutizzata - necessariamente fa naufragio. L’unico atteggiamento sapiente è la fiducia, anche quando sembra che Dio ci sottragga qualcosa; ma il suo obiettivo non è mai quello di impoverire. Abbiamo bisogno allora di non giudicare l’opera di Dio, se non vogliamo rattristarci senza motivo. I discepoli si rattristano che Cristo ha annunciato di essere sul punto di tornare al Padre: “Ora vado da Colui che mi ha mandato… perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore” (vv. 5-6). 

sabato 31 maggio 2014

una pace che quindi non può essere scalfita neppure dall’ostilità di tutto l’universo


La nota della gioia è rilevata più volte da Luca. La gioia accompagna sempre la conversione ed è un segno d’autenticità della conversione stessa. Così come la gioia accompagna gli Apostoli nelle loro tribolazioni: “si allontanarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati nel nome di Gesù”. Nell’ultima cena, Cristo aveva promesso una pace che non è di questo mondo (cfr. Gv 14,27), una pace che quindi non può essere scalfita neppure dall’ostilità di tutto l’universo. Il discepolo è un uomo libero, che non è turbato da ostilità alcuna: la pace gli rimane dentro, perché gliela dà Dio.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 30 maggio 2014

La liberazione è rimozione di ostacoli, fino a quando la nostra missione deve continuare; ma c’è un momento in cui questa missione si conclude.


Il testo continua, dicendo: “annunziarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa” (v. 32). Qui possiamo cogliere un’altra sfumatura, che abbiamo osservato precedentemente a proposito del concetto cristiano di libertà, che non consiste nella possibilità di fare tutto quello che si vuole, bensì nell’essere liberati da quegli ostacoli che frenano la realizzazione del suo piano. In questo caso, essere messi in carcere per Paolo e Sila significava essere impediti nella loro risposta alla grazia di Dio; e Dio rimuove questi ostacoli, perché dal suo punto di vista, essere liberi significa non avere ostacoli nella realizzazione del suo piano. Questa volta Paolo è liberato dal carcere per continuare la sua missione, ma quando sarà arrestato a Gerusalemme, non ci sarà più alcun terremoto a liberarlo: la sua missione apostolica, infatti, finisce lì. La liberazione è rimozione di ostacoli, fino a quando la nostra missione deve continuare; ma c’è un momento in cui questa missione si conclude. A questo punto, Dio permette che qualcuno o qualcosa possano fermarci. 
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 29 maggio 2014

La potenza di Dio non è al servizio dell’Apostolo per liberarlo dai guai, né la fede è una forma di assicurazione contro gli infortuni. La potenza di Dio è al servizio della conversione dell’uomo, che è scosso talvolta dai segni, con i quali Dio conferma l’autenticità dei suoi servi.


Notiamo ancora che l’intervento di Dio non è orientato solo alla liberazione degli Apostoli, ma è orientato anche alla conversione del carceriere e della sua famiglia. Il Signore non agisce mai in modo unilaterale: quando interviene in favore dei suoi servi è perché vuole lanciare un grande segnale, a partire dal quale la conversione porti la salvezza in chi ne è destinatario e testimone. La potenza di Dio non è al servizio dell’Apostolo per liberarlo dai guai, né la fede è una forma di assicurazione contro gli infortuni. La potenza di Dio è al servizio della conversione dell’uomo, che è scosso talvolta dai segni, con i quali Dio conferma l’autenticità dei suoi servi. Ecco perché i servi di Dio non sono sempre liberati dalle angosce, perché la potenza di Dio non promette all’Apostolo di camminare senza inciampi, ma promette di confermare con “segni”, anche grandi e potenti se è necessario, la verità della Parola del vangelo. Da questi segni, infatti, parte un messaggio potente di conversione che introduce nella gioia coloro che lo accolgono, gioia che proviene dalla fede. 
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 28 maggio 2014

intervento di Dio nella nostra vita ha talvolta questo carattere subitaneo, capace di capovolgere in un attimo una situazione che sembrava disperata


Luca, inoltre, introduce l’intervento di Dio con un avverbio significativo: “D’improvviso”. Questo avverbio ha un grande spessore teologico, perché l’intervento di Dio nella nostra vita ha talvolta questo carattere subitaneo, capace di capovolgere in un attimo una situazione che sembrava disperata; per questa ragione è una stoltezza incatenare il proprio io nel ripiegamento, il che significa negare a Dio lo spazio per intervenire con la sua onnipotenza e cambiare tutto in un istante, quando Egli decreta che la prova sia finita. Il Signore interviene all’improvviso, perché questo risponde ad una precisa pedagogia. Così la resurrezione di Lazzaro arriva all’improvviso, quando tutti - forse anche le sue sorelle – erano afferrati dalla perplessità, pensando che il Maestro non si fosse curato abbastanza di questi suoi intimi amici, dopo avere ricolmato di miracoli gli estranei. Essi attendevano che lo guarisse, ma Cristo si fa vivo dopo che Lazzaro è morto. Come possiamo notare, c’è nelle parole di Marta come un velato rimprovero: “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. Del resto è accaduto lo stesso alla Vergine Maria: prima di andare ad abitare con Giuseppe si trova incinta. La risposta di Dio non è immediata, non accade che Giuseppe se n’accorge e che un minuto dopo gli appaia l’angelo a dirgli che ciò che è in Lei è opera dello Spirito. Se Giuseppe si sprofonda nella meditazione, come vediamo nel vangelo di Matteo, è segno che Dio è intervenuto quando gli è parso giusto, secondo i suoi tempi, ma all’improvviso, capovolgendo d’un tratto una situazione che sembrava senza uscita; esattamente come accade a Paolo e Sila. La liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto ha avuto la stessa caratteristica. Il popolo d’Israele non è avvertito in anticipo del fatto che il mare si aprirà al suo passaggio, ma si trova come tra due fuochi, una volta giunto sulla riva: da un lato il mare e dall’altro il polverone dell’esercito egiziano. E anche lì l’intervento di Dio è improvviso e tutto si capovolge in un istante. C’è un margine di non-conoscenza che esige un profondo affidamento al Dio che libera all’improvviso, senza descrivere o spiegare a noi le motivazioni d’ogni suo singolo atto. Il Signore non è tenuto a spiegarci tutto e, di fatto, non ci spiega tutto durante questa vita, ma solo quello che serve alla nostra santificazione; verrà un momento in cui tutti i “perché” saranno spiegati, ma adesso è il tempo della fede, non il tempo della visione.

martedì 27 maggio 2014

invece di ripiegarsi e di piangersi addosso, cantano inni a Dio nel cuore della notte. È proprio questo l’unico atteggiamento in cui il mistero pasquale può manifestarsi nella vita dei cristiani.


At 16,22-34 “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”
Salmo 137 “Nella tua bontà soccorrimi, Signore”
Gv 16,5-11 “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”
Paolo e Sila, respinti, rifiutati, bastonati e poi gettati in prigione, invece di ripiegarsi e di piangersi addosso, cantano inni a Dio nel cuore della notte. È proprio questo l’unico atteggiamento in cui il mistero pasquale può manifestarsi nella vita dei cristiani. Paolo e Sila cantano inni e Dio interviene durante la lode che innalzano a Lui: “D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione”. Questa è la potenza della lode: un terremoto così forte che scuote tutto fino alle fondamenta. La lode fa tremare l’inferno, ma soprattutto, dal momento che il pensiero umano non è più incatenato su se stesso, Dio può finalmente agire, dimostrando di essere Lui l’unico vero liberatore dell’uomo: “subito le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti”. Questo versetto è l’immagine della liberazione, che avviene nel contesto della lode. Con ciò Luca vuole rilevare che, nel momento in cui il pensiero umano vince il ripiegamento, si apre per il Signore uno spazio salvifico di manifestazione della sua potenza. La potenza della liberazione passa dunque attraverso la capacità del discepolo di cantare inni a Dio quando è colpito, bastonato e messo in carcere. Il ripiegamento su se stesso impedisce allo Spirito Santo di agire. Infatti, può sembrare strano che lo Spirito di Dio in certe circostanze sia impotente, ma è Lui stesso che ha stabilito dei limiti ben precisi, che non vuole varcare. Lo Spirito Santo non varcherà mai la soglia della sfiducia e non interverrà mai nella vita di coloro che non si fidano di Dio. Se Paolo e Sila, anziché elevarsi a Dio con la preghiera di lode, avessero cominciato a piangere l’uno sull’altro, autocommiserandosi, non ci sarebbe stato nessun terremoto, né alcuno scuotimento delle fondamenta della prigione; nessuna porta si sarebbe aperta, nessuna libertà offerta. Lo Spirito Santo non intende varcare i limiti della sfiducia. La sfiducia gli chiude le porte irreversibilmente al punto tale che l’uomo non può sperimentare più la potenza di liberazione del Cristo risorto. 
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 26 maggio 2014

Questa tendenza naturale del nostro cuore, lesionato dal peccato, si acuisce quando non si vede raggiunto un obiettivo a cui si teneva.


At 16,22-34 “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”
Salmo 137 “Nella tua bontà soccorrimi, Signore”
Gv 16,5-11 “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”
Paolo e Sila in questa città sono stati trattati dunque come dei malfattori, bastonati e gettati in prigione. In questo genere di cose l’inclinazione umana più naturale è quella del ripiegamento, con le solite frasi che esso suggerisce: “Abbiamo fallito! Dio ci ha messo nelle mani dei nostri nemici. Ma perché proprio a noi? Che gli abbiamo fatto?”. E così via dicendo. È proprio qui che il peccato originale ci ha colpiti. Il peccato originale ha provocato in noi un continuo ritorno del nostro pensiero su noi stessi, un ritorno che diventa ancora più marcato quando veniamo colpiti da circostanze che non avremmo gradito, o da sofferenze o incomprensioni inaspettate. Questa tendenza naturale del nostro cuore, lesionato dal peccato, si acuisce quando non si vede raggiunto un obiettivo a cui si teneva. Al v. 25 l’atteggiamento degli Apostoli Paolo e Sila dimostra come dinanzi agli aspetti negativi della vita, e dinanzi al mistero della divina pedagogia, l’atto più genuinamente cristiano è la lode! La lode, nel suo slancio verticale e nella sua tendenza ad innalzarsi verso l’alto, spezza questa micidiale inclinazione di ricaduta verso il basso, cioè verso se stessi, che raggomitola l’io umano e lo fa sprofondare nel pessimismo e nel senso d’inutilità. Su questi sentimenti, poi, Satana può fare quello che vuole. Quando l’uomo sprofonda nel pessimismo e nell’inerzia, che sono i ceppi del ripiegamento, Satana ha già vinto. La lode dunque, per questo suo verticalismo, spezza il pensiero umano nel punto in cui esso sta per tornare verso se stesso e lo innalza invece verso Dio. Questa è la condizione perché Dio possa intervenire con la sua potenza di liberazione. Infatti, nella condizione del ripiegamento non rimane neanche un millimetro di apertura all’intervento di Dio; nel pessimismo generato dal ripiegamento, la persona ha già giudicato di essere finita, sostituendo il proprio giudizio a quello di Dio, che invece vorrebbe offrire nuove possibilità di rinascita. Paolo e Sila sono alieni da qualunque forma di autocommiserazione, e nella loro sventura lodano Dio: “Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti” (vv. 25-26). 
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 25 maggio 2014

Uno dei segni della propria estraneità o della propria familiarità con Dio è appunto l’atteggiamento verso la Parola e coloro che l’annunciano


At 16,22-34 “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”
Salmo 137 “Nella tua bontà soccorrimi, Signore”
Gv 16,5-11 “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”

Il tema centrale della liturgia della Parola di questa giornata, può essere identificato con il mistero pasquale, in cui l’azione dello Spirito Santo trova uno spazio proprio in quelle cose che l’uomo percepisce come privazioni o come mortificazioni. Gli Atti degli Apostoli narrano un episodio accaduto a Paolo e Sila nella città di Filippi, dove, come sappiamo dalla lettera ai Filippesi, vi era una comunità cristiana fiorente e motivata, ma che viveva in un ambiente ostile, come si legge al v. 22 della prima lettura odierna: “In quei giorni, la folla degli abitanti di Filippi insorse contro Paolo e Sila”. Ci troviamo di nuovo dinanzi al mistero del rifiuto della Parola Dio, nel rifiuto dei suoi portatori; infatti, rifiutare gli annunciatori della Parola di Dio, equivale a rifiutare Dio! Uno dei segni della propria estraneità o della propria familiarità con Dio è appunto l’atteggiamento verso la Parola e coloro che l’annunciano. Qui, a differenza dell’atteggiamento d’apertura di Lidia alle parole di Paolo, si verifica il contrario: l’indurimento e il rifiuto violento: “i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia. Egli, ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi” (vv. 22-24). 

sabato 24 maggio 2014

quelli che hanno consegnato la loro vita a Cristo hanno anche rinunciato a cercare se stessi e perciò non usano mai i loro ministeri e i loro servizi a proprio vantaggio, per comandare o per imporre se stessi


Gli Apostoli guidano la Chiesa solo visibilmente, come strumenti docili, ma è lo Spirito di Dio che indica alla Chiesa le sue strade. Da questo momento, la comunità cristiana comprende che la decisione presa alla luce dello Spirito di Dio, nel momento in cui gli Apostoli si riuniscono nell’esercizio del loro carisma, è una decisione che è valida e normativa per tutta la Chiesa; esattamente come avviene oggi: i documenti del concilio sono validi e normativi per tutta la Chiesa. Anche del concilio Vaticano II, l’ultimo in ordine di tempo, si deve dire: “Lo Spirito Santo e noi, abbiamo deciso”.
Vi sono ancora altri insegnamenti notevoli che provengono dal testo odierno degli Atti; quando gli Apostoli prendono la decisione suddetta, a chi affidano l’incarico di comunicare alle comunità cristiane la loro decisione? L’affidano ad alcuni che sono tenuti in grande considerazione tra i fratelli. E perché sono tenuti in grande considerazione? Rileggiamo il versetto chiave: “Abbiamo deciso di eleggere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Paolo e Barnaba, uomini che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo” (vv. 25-26). Nella Chiesa questi sono coloro a cui si può affidare tutto! Quelli che hanno votato, ovvero hanno consegnato senza riserve, la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo. A questi si può affidare davvero tutto; si può avere cieca fiducia nel loro servizio, perché quelli che hanno consegnato la loro vita a Cristo hanno anche rinunciato a cercare se stessi e perciò non usano mai i loro ministeri e i loro servizi a proprio vantaggio, per comandare o per imporre se stessi. Quindi non sono le molte iniziative, né le molte cose buone che si fanno, ciò che dal punto di vista di Dio ci rende affidabili; in verità siamo affidabili e utili per la comunità cristiana solo se abbiamo consegnato incondizionatamente la nostra vita a Cristo. Il segno che invece non abbiamo dato la vita a Cristo si ha quando i nostri servizi, i nostri ministeri, nella Chiesa diventano un luogo o un’occasione di comando; quando usiamo i ministeri per comandare meglio, invece che per servire meglio, quello è il segno inconfondibile che la nostra vita a Cristo non è stata ancora consegnata. Ci spieghiamo allora perché gli Apostoli, per il delicato servizio di comunicare alle Chiese le loro decisioni (ci poteva essere il rischio di messaggeri che fornissero un’interpretazione inesatta del dettato apostolico), scelgono uomini di cui è chiara e sicura una cosa sola, che hanno votato la vita al nome del signore Gesù Cristo. 
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 23 maggio 2014

Gli Apostoli si mettono in seconda posizione, perché è lo Spirito Santo colui che guida la Chiesa.


At 15,22-31 “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun obbligo”
Salmo 57 “Sei tu la mia lode, Signore, in mezzo alle genti”
Gv 15,12-17 “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”

La prima lettura odierna è la continuazione del racconto del concilio di Gerusalemme, quando gli Apostoli si sono riuniti per affrontare un problema che si era posto all’inizio dell’evangelizzazione e della nascita della Chiesa: cosa richiedere ai pagani che si convertono al cristianesimo circa le esigenze dei precetti mosaici. La cosa più importante di questa prima riunione degli Apostoli è che lo Spirito Santo garantisce la sua presenza e la sua luce agli Apostoli che si radunano nel tentativo di conoscere la volontà di Dio. Scrivono infine una lettera da distribuire a tutte le comunità cristiane, perché la decisione degli Apostoli venga diffusa e osservata da tutti, essendo una decisione normativa per la Chiesa, appunto perché è una decisione che essi prendono sotto la presidenza dello Spirito Santo, nell’esercizio del carisma apostolico ricevuto direttamente da Cristo; un passaggio della lettera dice precisamente: “Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi” (v. 28). Lo Spirito Santo è in prima posizione per indicare il suo primato nelle scelte e nelle decisioni degli Apostoli. Gli Apostoli si mettono in seconda posizione, perché è lo Spirito Santo colui che guida la Chiesa. 
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 22 maggio 2014

la descrizione di un cammino di ricerca della volontà di Dio compiuto dalla comunità cristiana nel suo insieme


At 15,7-21 “Ritengo non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani”
Salmo 95 “Vedano la tua gloria, Signore, tutte le nazioni”
Gv 15,9-11 “Rimanete nel mio amore, affinché la vostra gioia sia piena”

La liturgia della parola quest’oggi ha come oggetto di annuncio e di riflessione la vita della comunità cristiana alla ricerca della volontà di Dio. La Parola oggi non ci dà tanto degli insegnamenti relativi al cammino personale dei cristiani, quanto piuttosto la descrizione di un cammino di ricerca della volontà di Dio compiuto dalla comunità cristiana nel suo insieme.
La comunità cristiana, dopo la Risurrezione e l’Ascensione di Gesù, vive una condizione sostanzialmente diversa da quella sperimentata dai discepoli nel tempo del ministero pubblico di Cristo, quando cioè il Maestro era ancora fisicamente in mezzo a loro. Grazie alla sua presenza fisica, infatti, era Lui che indicava al gruppo apostolico le vie, le scelte da fare, le opere da compiere; era Lui che esplicitamente dava loro il mandato di predicare, di guarire gli infermi, di scacciare il demonio, indicando luoghi e destinatari. Ma dopo l’uscita di Cristo da questo mondo e il suo ritorno al Padre, la comunità cristiana si ritrova senza un riferimento visibile per le sue scelte pastorali.
Ed è proprio su questo punto che il testo degli Atti oggi vuole richiamare la nostra attenzione. La comunità cristiana non ha più Cristo, che in modo sensibile ed immediato possa dirle cosa deve fare, ma ha la voce dello Spirito, che essa deve imparare ad ascoltare in un processo di discernimento comunitario. Il tema del discernimento comunitario è proprio l’insegnamento principale del testo odierno degli Atti al cap. 15. Si tratta di un insegnamento che non è, però, completo, né potrebbe esserlo. Per poter parlare in modo completo del discernimento comunitario occorrerebbe accostare a questo testo tanti altri. Ad ogni modo, la liturgia feriale non si propone insegnamenti sistematici, che invece sono oggetto della catechesi. Se non altro ci permette di entrare in questo argomento importante, sebbene in modo provvisorio ed incompleto.
L’immagine di comunità che emerge dal cap. 15 degli Atti, è quella di una Chiesa posta di fronte a delle scelte radicali, che avrebbero avuto delle conseguenze di vasta portata per il suo futuro, e cioè la necessità di stabilire fino a che punto svincolarsi dalla legge di Mosè. I primi cristiani erano tutti di origine ebraica e tutti osservavano la legge di Mosè, ma quando giungono al cristianesimo anche i pagani e vengono battezzati, allora si pone il problema. Che fare? Introdurli nel sistema delle consuetudini ebraiche, oppure no? Chiedere la circoncisione e le altre osservanze, assimilandoli così ai cristiani palestinesi, oppure elaborare per essi uno statuto a parte? La risposta, che sarà sostenuta con forza dall’Apostolo Paolo e da Barnaba, è formulata così: i cristiani sono liberi da tutte le prescrizioni della Legge mosaica, tranne da quelle fondamentali e perennemente valide. A noi interessa qui cogliere piuttosto l’insegnamento sul discernimento comunitario e come la prima comunità cristiana sia stata capace di giungere a una tale determinazione. Il brano degli Atti non presenta una decisione compiuta autoritativamente da uno e imposta a tutti. Nella comunità cristiana non c’è mai una opinione, per quanto autorevole, che possa essere imposta a tutti, senza che la comunità nel suo insieme la percepisca come autenticamente voluta da Dio. Così, per cogliere la voce dello Spirito, la comunità cristiana delle origini accosta tanti tasselli quanti sono gli interventi di coloro che nell’assemblea si esprimono su questo medesimo problema. Parla l’Apostolo Pietro, poi parlerà Giacomo, e parlerà anche Barnaba. Questo ci sembra significativo per affermare che nella comunità cristiana nessuno conosce la volontà di Dio in maniera completa, perché tale conoscenza dipende da tanti tasselli accostati l’uno all’altro per formare un mosaico. Per questo, prima di giungere a una determinazione, vengono ascoltati attentamente tutti gli Apostoli che hanno qualcosa da dire. E’ come se ciascuno di essi avesse un piccolo frammento che ha bisogno di essere accostato a quello degli altri per potere manifestare la totalità del disegno. Il testo odierno presenta infatti la comunità cristiana nell’atto di mettere accanto i vari tasselli: quello di Pietro, quello di Paolo, quello di Barnaba, quello di Giacomo. Tanti piccoli tasselli accostati l’uno all’altro producono un grande disegno che tutta la comunità cristiana può contemplare e riconoscere come volontà di Dio. Quindi possiamo affermare che un primo punto fermo del discernimento comunitario consiste nell’ascolto dello Spirito che parla per bocca dei fratelli. Il discernimento comunitario si presenta allora come un disegno che si compone davanti gli occhi della comunità man mano che ciascuno pone il suo frammento accanto al frammento degli altri. Ma perché questo si faccia è necessaria una particolare virtù che è definita da questo versetto chiave: “Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare” (v. 12). Il discernimento comunitario esige delle precise virtù: la capacità di ascoltare gli altri nello Spirito; la capacità di tacere a lungo; la capacità di accoglienza rispettosa di quei frammenti che, presi da soli, potrebbero sembrare poco chiari o poco significativi. Bisogna attendere infatti che tutti i frammenti vengano alla luce, prima di poter capire il valore e la posizione di ciascuno. E’ un po’ ciò che accade a un musicista: se egli isola una voce di una corale polifonica, e la esegue da sola, essa può sembrare perfino sgradevole all’udito raffinato di chi si intende di musica; ma quando è eseguita con le altre voci, allora si manifesta la sua bellezza. Anzi, senza di essa, perfino le altre voci risulterebbero meno belle.
Per tutto questo è necessaria quella virtù che è la capacità d’ascolto, un ascolto che non si concluda prima che tutti i tasselli siano stati collocati al loro posto. E il grande quadro risulta da questo primo confronto assembleare, tenutosi a Gerusalemme, e che si può definire - come di fatti è stato definito - il primo concilio della Chiesa. La comunità cristiana in questa occasione scopre non soltanto quale sia la decisione da prendersi in merito ai pagani che diventano cristiani, ma viene anche alla luce un carattere essenziale della comunità cristiana: la collegialità degli Apostoli, a cui è affidata la guida delle chiese sparse nel mondo. Essi decidono alla fine di non imporre nessun giogo giuridico a coloro che sono venuti alla fede, perché la fede in Cristo, da sola, purifica i cuori ed è sufficiente a salvare la persona. È qui che cogliamo un altro aspetto essenziale della comunità cristiana: essa non è mai padrona dei suoi membri; è piuttosto al servizio della fede dei battezzati. La fede, a sua volta, purifica i cuori e salva. Nel momento in cui la comunità cristiana esercitasse una qualche forma di dominio sui battezzati, cesserebbe di essere serva e si muterebbe in padrona, tradendo il modello lasciato dall’esempio di Cristo. Non potrebbe più favorire la crescita della fede, perché tale crescita avviene solo nella libertà di coscienza.
Così alla fine di quest’assemblea, dove tutti hanno messo il loro tassello accanto a quello degli altri, e dove il quadro della volontà di Dio si è completato, anche il volto della Chiesa ne esce più nitido. La Chiesa è serva della fede dei suoi membri, serva del cammino di santità. Una volta comunicata la fede ha già fatto tutto, e il resto è un elemento aggiuntivo, complementare, che non deve mai assumere una prevalenza su ciò che è più importante, ossia il rimanere nell’amore di Cristo. Il servizio della Chiesa ha solo questo come unico obiettivo: “Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore” (v. 10). “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (v. 9). Prima ancora di essere chiamati a servire la Chiesa, noi siamo chiamati ad amare Cristo e a lasciarci assimilare da Lui.

mercoledì 21 maggio 2014

“rimanere”: si tratta non tanto di aggiungere alla mediazione di Cristo qualche altra cosa, quanto piuttosto di “rimanere” attaccati a Lu


At 15,1-6 “Fu stabilito che Paolo e Barnaba andassero a Gerusalemme dagli apostoli”
Salmo 121 “Andiamo con gioia alla casa del Signore”
Gv 15,1-8 “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto

Il tema centrale che unisce le due letture odierne è l’unicità della mediazione di Gesù Cristo nella salvezza dell’uomo, una mediazione non bisognosa d’integrazioni di sorta. La prima lettura presenta un gruppo di persone provenienti dal giudaismo farisaico, che, all’interno della comunità cristiana, affermano la necessità di aggiungere alla mediazione di Gesù Cristo anche alcune pratiche giudaiche prescritte dalla Legge mosaica. Ciò comportava un cristianesimo integrato nell’orizzonte del giudaismo e, peggio ancora, equivaleva ad affermare che l’azione salvifica di Gesù avesse bisogno di essere completata dalle pratiche mosaiche. La prima comunità cristiana si trova così divisa intorno al problema dei pagani che entravano nel discepolato cristiano: se dovevano o no essere circoncisi, secondo l’usanza della comunità palestinese. L’Apostolo Paolo si schiererà contro questa posizione, affermando – sulla scia del cristianesimo progressista di Antiochia - che la fede in Cristo è sufficiente da sola a salvare l’uomo; inoltre, il cristianesimo comincia a presentarsi nell’annuncio paolino come una religione veramente nuova e indipendente dal giudaismo, sebbene proveniente dalle sue stesse radici. Sarà questa posizione ad avere la preminenza all’interno del primo concilio di Gerusalemme. L’unicità di Gesù Cristo viene riaffermata nel vangelo sotto il simbolo della vite e del vignaiolo: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo” (v. 1). In questa metafora Cristo attribuisce a Se Stesso il canale di comunicazione della vita divina, che arricchisce l’esistenza del battezzato e la riempie di significati nuovi e divini. Così come la vite non ha bisogno di altro per nutrire i grappoli, se non del fatto che essi siano congiunti a essa, allo stesso modo Cristo non ha bisogno di pratiche né di precetti per compiere la sua opera di santificazione dell’uomo. Gli basta che ciascun uomo aderisca a Lui con fedeltà perenne. La vita divina non è come un pieno di benzina: nessuno può farsene una scorta. La grazia di Dio si riceve se si rimane uniti a Lui e si perde se gli si voltano le spalle. E’ per questo motivo che la metafora della vite e dei tralci insiste sul tema del “rimanere”: si tratta non tanto di aggiungere alla mediazione di Cristo qualche altra cosa, quanto piuttosto di “rimanere” attaccati a Lui; ciò garantisce la comunicazione continua della vita divina, dalla quale risultano le opere della vita cristiana. Cristo afferma radicalmente che il cristiano non può far niente senza di Lui (cfr. v. 5), dal momento che tutte le opere dell’uomo acquistano valore, davanti al Padre, solo in quanto sono convalidate dal Figlio suo. 

martedì 20 maggio 2014

Sul tema dell’evangelizzazione, e della conseguente posizione che gli ascoltatori assumono verso di essa, il testo degli Atti ci indica alcune particolari condizioni che rivelano in parte l’agire di Dio e in parte l’agire di Satana.

Ancora...

L’annuncio apostolico è il canale necessario e imprescindibile per conoscere Dio e Colui che il Padre ha mandato per la nostra liberazione. Sul tema dell’evangelizzazione, e della conseguente posizione che gli ascoltatori assumono verso di essa, il testo degli Atti ci indica alcune particolari condizioni che rivelano in parte l’agire di Dio e in parte l’agire di Satana. L’agire di Dio si presenta come un sostegno alla predicazione dell’Apostolo e come una conferma della verità della sua parola, mediante i segni che l’accompagnano. Però, va notato che questi segni non si presentano immediatamente, né tutti insieme in modo simultaneo; essi si manifestano solo successivamente, dopo che un’intera folla di ascoltatori si chiude alla predicazione di Paolo e di Barnaba. Infatti, in un primo momento si dice che giudei e pagani tentano di catturare Paolo e Barnaba durante la loro attività apostolica, per maltrattarli e lapidarli. E’ significativo come il testo degli Atti racconti la manifestazione di un segno di guarigione subito dopo che Paolo e Barnaba sono stati respinti, maltrattati e quasi lapidati. Il Signore non manca quindi di confermare la santità dei suoi servi, ma lo fa quando le circostanze giungono ad un punto critico, quando il vangelo rischierebbe di naufragare totalmente sotto le ondate dell’ostinazione e della chiusura dei cuori, ondate che si innalzano contro la Parola del vangelo e respingono i servi di Dio. Allora, proprio in quel momento drammatico, il segno carismatico operato da Dio a conferma della Parola, permette a molti di rinsavire. Dio conferma con i segni carismatici la santità dei suoi servi e la verità della loro parola, non però in maniera sistematica o inflazionata – sarebbe semplicistico pretendere da Dio una conferma carismatica ad ogni singolo annuncio - bensì solo in momenti cruciali, noti a Lui, e scelti secondo i criteri della sua Sapienza. In questo caso, Paolo e Barnaba sono davvero giunti, nel loro ministero, a un punto di alta tensione drammatica, in cui il vangelo, unanimemente rifiutato, poteva naufragare, e con esso anche la possibilità di salvezza per coloro che, onesti ma più deboli, erano stati trascinati dalla ribellione popolare. In queste circostanze difficili, divenute oramai superiori alle risorse umane, Dio dà un grande segnale, perché chi vuole rinsavire possa rientrare in se stesso e sottrarsi al polverone sollevato dallo spirito delle tenebre, per confondere la mente dei deboli e distoglierle dalla verità di Dio.
Il segno operato da Dio è qui un miracolo di guarigione che avviene a Listra per un uomo storpio dalla nascita, che ovviamente non aveva mai camminato; l’autore sottolinea il carattere soprannaturale di questa guarigione che ha come destinatario un uomo malato dalla nascita e perciò inguaribile dal punto di vista delle risorse della scienza umana. Il testo si esprime in questi termini: “Paolo fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di essere risanato, disse a gran voce: Alzati dritto in piedi” (vv. 9-10). Qui si vede come il segno carismatico sia preceduto da un atto di discernimento compiuto dall’Apostolo: vale a dire che Dio non opera il segno, senza dare all’Apostolo una luce di discernimento che gli fa presentire quanto Dio sta per fare e come egli stesso debba disporsi a esserne strumento. Questo uomo ammalato, che Paolo incontra nel suo ministero, non è il primo e neanche l’ultimo, ma ha la caratteristica, a differenza di parecchi altri (che magari non hanno ottenuto la guarigione), di essere stato scelto da Dio come segnale per la sua gloria. Per questa ragione Paolo avverte dentro di sé una particolare spinta che lo porta a fissare, con un sguardo diverso dal consueto, questo storpio; uno sguardo nel quale la luce dello Spirito Santo gli permette di vedere dentro di lui e di cogliere quella fede sufficiente per essere guarito. Il seguito non ha bisogno di commento: “Egli fece un balzo e si mise a camminare” (v. 10): immediatamente lo storpio balza in piedi con una guarigione istantanea e soprannaturale. Il segno è compiuto e Dio ha confermato la verità e la potenza di liberazione di quella Parola così respinta e così odiata. Ma nel momento in cui Paolo compie questo gesto carismatico, subentra una seconda strategia del Maligno. La prima era stata quella di spingere giudei e pagani contro Paolo e Barnaba, con una persecuzione violenta, respingendoli fisicamente lontano dai loro territori, in modo che non potessero più testimoniare il vangelo di Cristo. Si tratta di una prima strategia di Satana, che colpisce solamente l’esterno, ma che porta dei frutti, quando - come in questo caso - Paolo e Barnaba sono costretti ad andarsene, fuggendo dalla città di Iconio, dove appunto questa congiura era stata organizzata per mandarli via. Nel momento in cui Dio compie quel segno di guarigione per confermare la parola dell’Apostolo, e ciò si verifica in un momento di particolare crisi del suo ministero, Satana ritorna sulla scena con un’altra strategia: fa in modo di snaturare, nella mente dei pagani, questo segno dato da Dio a conferma della verità del vangelo: “La gente, al vedere quel che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaònio e disse: Gli dei sono scesi tra noi in figura umana! E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era il più eloquente” (vv. 11-12). Questa seconda strategia di Satana diventa qui più sottile e più pericolosa della prima. Mentre nella prima strategia gli Apostoli erano stati colpiti e allontanati soltanto fisicamente, nella seconda sono colpiti invece i destinatari, ma non fisicamente; essi vengono fuorviati nella loro interpretazione dei fatti, e cadono nel rischio di una nuova idolatria, attribuendo a qualcun altro l’opera compiuta da Dio. La conseguenza è quella di fermarsi allo strumento di Dio senza arrivare a Dio. A queste condizioni, il segno carismatico diventa un punto di arrivo e non un rimando a qualcos’altro: Dio, infatti, aveva dato il segno della guarigione perché da questo segno si risalisse a Lui, comprendendo che quegli uomini erano suoi servi; i pagani, invece, fuorviati da una suggestione maligna, si fermano al segno e non vanno oltre. Lo stravolgimento del pensiero dei destinatari dell’annuncio della Parola è ancora più pericoloso della persecuzione fisica degli evangelizzatori; ecco perché Paolo e Barnaba resistono con molta energia al tentativo, fatto dalla folla, di offrire loro degli olocausti come se fossero delle divinità e richiamano fortemente quei cittadini alla realtà dell’unico Dio, a cui solo spetta ogni adorazione.  
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 19 maggio 2014

Il Signore non manca quindi di confermare la santità dei suoi servi, ma lo fa quando le circostanze giungono ad un punto critico, quando il vangelo rischierebbe di naufragare totalmente sotto le ondate dell’ostinazione e della chiusura dei cuori, ondate che si innalzano contro la Parola del vangelo e respingono i servi di Dio.


Continuando nella spiegazione degli atti...
L’annuncio apostolico è il canale necessario e imprescindibile per conoscere Dio e Colui che il Padre ha mandato per la nostra liberazione. Sul tema dell’evangelizzazione, e della conseguente posizione che gli ascoltatori assumono verso di essa, il testo degli Atti ci indica alcune particolari condizioni che rivelano in parte l’agire di Dio e in parte l’agire di Satana. L’agire di Dio si presenta come un sostegno alla predicazione dell’Apostolo e come una conferma della verità della sua parola, mediante i segni che l’accompagnano. Però, va notato che questi segni non si presentano immediatamente, né tutti insieme in modo simultaneo; essi si manifestano solo successivamente, dopo che un’intera folla di ascoltatori si chiude alla predicazione di Paolo e di Barnaba. Infatti, in un primo momento si dice che giudei e pagani tentano di catturare Paolo e Barnaba durante la loro attività apostolica, per maltrattarli e lapidarli. E’ significativo come il testo degli Atti racconti la manifestazione di un segno di guarigione subito dopo che Paolo e Barnaba sono stati respinti, maltrattati e quasi lapidati. Il Signore non manca quindi di confermare la santità dei suoi servi, ma lo fa quando le circostanze giungono ad un punto critico, quando il vangelo rischierebbe di naufragare totalmente sotto le ondate dell’ostinazione e della chiusura dei cuori, ondate che si innalzano contro la Parola del vangelo e respingono i servi di Dio. Allora, proprio in quel momento drammatico, il segno carismatico operato da Dio a conferma della Parola, permette a molti di rinsavire. Dio conferma con i segni carismatici la santità dei suoi servi e la verità della loro parola, non però in maniera sistematica o inflazionata – sarebbe semplicistico pretendere da Dio una conferma carismatica ad ogni singolo annuncio - bensì solo in momenti cruciali, noti a Lui, e scelti secondo i criteri della sua Sapienza. In questo caso, Paolo e Barnaba sono davvero giunti, nel loro ministero, a un punto di alta tensione drammatica, in cui il vangelo, unanimemente rifiutato, poteva naufragare, e con esso anche la possibilità di salvezza per coloro che, onesti ma più deboli, erano stati trascinati dalla ribellione popolare. In queste circostanze difficili, divenute oramai superiori alle risorse umane, Dio dà un grande segnale, perché chi vuole rinsavire possa rientrare in se stesso e sottrarsi al polverone sollevato dallo spirito delle tenebre, per confondere la mente dei deboli e distoglierle dalla verità di Dio. 
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 18 maggio 2014

La posizione che si prende, quando si è raggiunti dalla Parola di Dio, determina la possibilità di progredire nella conoscenza di Dio e nella manifestazione di Gesù Cristo, oppure il suo contrario.


At 14,5-18 “Vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio Vivente”
Salmo 113 “A te la gloria, Signore, nei secoli”
Gv 14,21-26 “Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa”

Nel vangelo odierno è riportata una affermazione di Cristo che identifica l’amore e l’ubbidienza. In seguito alla domanda di un Apostolo, il Maestro risponde dicendo che tutti quelli che lo amano osservano la sua Parola. La domanda era questa: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?” (v. 22). Nella sua risposta, Gesù gli fa comprendere che non c’è un ambito esclusivo per la sua manifestazione, e che là dove c’è uno che lo ama e che si apre alla rivelazione della verità di Dio, lì Cristo si manifesta. Questo medesimo tema della rivelazione di Dio, il quale ama manifestarsi a coloro che lo cercano con cuore sincero - e lo fa senza porre confini, o categorie, o limiti prestabiliti - viene presentato nel testo degli Atti sotto l’aspetto concreto dell’evangelizzazione, dinanzi alla quale gli uomini effettivamente si dividono, in quanto vengono messi nella condizione di decidere se schierarsi dalla parte del vero Dio o se fare scelte diverse. La posizione che si prende, quando si è raggiunti dalla Parola di Dio, determina la possibilità di progredire nella conoscenza di Dio e nella manifestazione di Gesù Cristo, oppure il suo contrario. Dall’indifferenza e dalla chiusura nei confronti della Parola che risuona nella predicazione apostolica, deriva una impossibilità, per il Signore, di continuare a rivelare Se Stesso. Dunque, l’insegnamento centrale della Parola odierna è questo: da un lato, il vangelo afferma che Dio, senza restrizioni e senza confini, si manifesta a tutti coloro che lo cercano; dall’altro lato, nel testo degli Atti si dimostra concretamente come l’evangelizzazione - che è il canale ordinario della rivelazione di Dio - possa andare a vuoto, quando i destinatari assumono una posizione di ostilità e di sospetto verso la Parola.
Don Vincenzo Cuffaro

sabato 17 maggio 2014

Cristo intende dire che chi crede in Lui diviene strumento di un’opera di salvezza compiuta dal Padre, divenendo egli stesso rivelazione del Padre, in forza della fede in Cristo.


At 13,44-52 “Noi ci rivolgiamo ai pagani”
Salmo 97 “Cantiamo al Signore, salvezza di tutti i popoli”
Gv 14,7-14 “Chi ha visto me ha visto il Padre”

Le due letture odierne si collegano in forza di un tema che è quello dell’azione di Dio nei suoi Apostoli; Dio stesso compie la sua opera nei suoi ministri e attraverso di essi, così come, nel tempo del ministero pubblico di Gesù, è il Padre che attraverso di Lui compie le sue opere. Questa espressione, “compiere le opere del Padre”, ha lo stesso significato e lo stesso valore che dire “il Padre compie le sue opere attraverso i suoi ministri”. Si tratta di un insegnamento molto evidente, in quanto, nel brano evangelico, Cristo stesso si esprime in termini analoghi, a proposito della domanda di Filippo, il quale voleva che Cristo mostrasse loro il Padre. Gesù risponde che il Padre è già visibile in Lui (cfr. v. 9), e poi aggiunge: “il Padre che è in Me, compie le sue opere” (v. 10). Il Padre compie le sue opere attraverso il Figlio, ma anche coloro che credono nel Figlio, e che in Lui si pongono a servizio di Dio, si inquadrano nel medesimo mistero strumentale. Infatti, Cristo si riferisce anche a coloro che crederanno in Lui e descrive l’esito della loro vita negli stessi termini della propria: “anche chi crede in me, compirà le opere che io compio” (v. 12). Implicitamente, ma in modo inequivocabile, Cristo intende dire che chi crede in Lui diviene strumento di un’opera di salvezza compiuta dal Padre, divenendo egli stesso rivelazione del Padre, in forza della fede in Cristo. Ma questa medesima espressione significa pure che nel discepolo si replicherà la vita del Maestro, insieme alla caratteristica più fondamentale del ministero messianico di Gesù: essere strumento dell’opera del Padre.
Il brano degli Atti, descrive l’apostolato di Paolo e mostra chiaramente come in lui si sia realizzata davvero questa strumentalità, di cui Cristo parla ai suoi discepoli nel contesto dell’ultima cena secondo Giovanni. La verità di questa promessa è personificata da Paolo, nel quale si replica appunto l’esperienza di Cristo sotto tanti aspetti. Paolo annuncia la Parola di Dio a una moltitudine ma viene colpito dalla gelosia, dalla contraddizione, dalla persecuzione che si scatenano ben presto contro di lui; così come Cristo aveva sperimentato l’opposizione del mondo alla Parola di verità. Dall’altro lato, il passaggio di Paolo, così come il passaggio di Cristo per le vie della Palestina, diffonde intorno a sé la gioia e apre i cuori alla glorificazione di Dio. Nel vangelo, e soprattutto nei racconti di Luca, viene sottolineato ripetutamente che al passaggio di Cristo, ai suoi gesti di guarigione e di liberazione, consegue l’acclamazione del popolo e la glorificazione di Dio. Così anche il passaggio di Paolo nel mondo pagano produce gli stessi effetti: “i pagani si rallegravano e glorificavano la Parola di Dio” (v. 48).  
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 16 maggio 2014

ttraverso il Figlio generato oggi, la nostra adozione si compie, insieme all’esperienza di una nuova nascita, per la quale dalla genealogia umana, caratterizzata dalla consanguineità con gli antenati, si passa alla genealogia divina, caratterizzata dalla consanguineità col Figlio capostipite del nuovo Israele.


At 13,26-33 “Dio ha attuato per noi la promessa risuscitando Gesù”
Salmo 2 “Hai glorificato, Padre, il Figlio del tuo amore”
Gv 14,1-6 “Io sono la Via, la Verità e la Vita”

Le letture di questa giornata sono unite dall’annuncio dell’adozione divina dell’umanità che, in Cristo, viene accolta da Dio con la nuova identità della figliolanza. E’ questo, infatti, il tema esplicitamente trattato dalla prima lettura nel discorso dell’Apostolo Paolo nella sinagoga, dove, a proposito della promessa che si è attuata in Gesù Cristo, egli attribuisce la condizione di figli a coloro che accolgono la parola di salvezza: “Dio l’ha attuata per noi che siamo figli” (v. 33), discendenti dei padri a cui erano state fatte le promesse; subito dopo egli aggiunge: “sta scritto nel salmo secondo: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato” (v. 33). Indirettamente, si allude al fatto che, attraverso il Figlio generato oggi, la nostra adozione si compie, insieme all’esperienza di una nuova nascita, per la quale dalla genealogia umana, caratterizzata dalla consanguineità con gli antenati, si passa alla genealogia divina, caratterizzata dalla consanguineità col Figlio capostipite del nuovo Israele.
Questo stesso Figlio, che nel vangelo di Giovanni rivolge il proprio insegnamento ai discepoli, parla di posti che Egli stesso ha preparato nella casa del Padre. Ciò implica che questi posti o dimore, per il fatto di essere collocati nella casa del Padre, sono destinati a coloro che in Cristo sono divenuti figli. Cristo desidera che si faccia un atto di fede in Lui e in Dio, credendo che la casa del Padre si riempirà di figli. E’ infatti questa la volontà di Dio e l’opera di Cristo, che ha già preparato i posti che noi occuperemo nelle sedi celesti. Occupare quei posti preparati da Cristo nella casa del Padre equivale ad essere accolti in essa come figli; e affermare che il Figlio prepara per noi i posti nella casa del Padre, equivale a dire che solo in grazia di Lui possiamo essere figli anche noi.  
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 15 maggio 2014

La posizione che si assume nei confronti della parola annunciata dall’Apostolo è la medesima che Dio considera valida come decisione personale, come posizione assunta verso di Lui


At 13,13-25 “Dalla discendenza di Davide Dio trasse il salvatore, Gesù”
Salmo 88 “Il Signore è fedele per sempre, alleluia”
Gv 13,16-20 “Chi accoglie colui che manderò, accoglie me”

In questo giovedì della quarta settimana di pasqua, ci troviamo di fronte ad un insegnamento di Cristo, rivolto ai suoi discepoli, in riferimento al loro mandato apostolico e al ministero della Parola che vi è connesso. Questa frase di Gesù a cui ci riferiamo, e che chiude il brano evangelico odierno, è infatti il punto di raccordo con la prima lettura, tratta dal cap. 13 degli Atti. Ecco il versetto chiave di congiungimento delle letture di questa liturgia: “In verità vi dico: chi accoglie colui che manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato” (v. 20). L’accoglienza dell’Apostolo è accoglienza di Cristo, perché il mandato apostolico di annunciare il vangelo pone l’annunciatore su di un doppio livello, che sta continuamente davanti ai destinatari dell’annuncio: i destinatari dell’annuncio si trovano infatti prima di tutto dinanzi a Cristo e non soltanto dinanzi all’annunciatore del vangelo. La posizione che si assume nei confronti della parola annunciata dall’Apostolo è la medesima che Dio considera valida come decisione personale, come posizione assunta verso di Lui. Il senso di questo versetto chiave, che descrive uno degli aspetti certamente più affascinanti e misteriosi del ministero della Parola: “chi accoglie colui che io manderò, accoglie me”, allude al doppio livello già chiarito su cui si muove l’annunciatore e segna l’inseparabilità della Persona di Cristo dalla persona dei suoi discepoli, al punto tale che l’atteggiamento assunto verso di loro è considerato da Cristo come se fosse stato assunto direttamente verso di Lui; è perciò valido davanti a Dio e carico di responsabilità. Per questo chi accoglie l’annuncio, accoglie Cristo e non soltanto il discepolo di Cristo, e chi rifiuta l’annuncio rifiuta non soltanto il discepolo di Cristo ma, in senso diretto, in virtù dell’equazione Maestro-discepolo, respinge dalla propria vita Cristo stesso. 
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 14 maggio 2014

La comunità cristiana è fatta crescere dalla Parola né potrebbe crescere senza di Essa. La Parola è viva e capace di produrre degli effetti, indipendentemente da coloro che l’annunciano e che l’ascoltano.


At 12,24-13,5 “Riservate per me Barnaba e Saulo”
Salmo 67 “Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”
Gv 12,44-50 “Io sono venuto nel mondo come luce”

Le due letture affrontano il tema pasquale dell’evangelizzazione: la Chiesa della Risurrezione è in stato di continuo annuncio della Parola. Il testo lucano si apre dicendo che “In quei giorni, la Parola di Dio cresceva e si diffondeva” (v. 24), sottolineando che è la Parola di Dio che cresce, non la comunità cristiana; infatti, la Parola contiene una energia efficace, soprannaturale, agendo in forza di una sua potenza intrinseca. La comunità cristiana è fatta crescere dalla Parola né potrebbe crescere senza di Essa. La Parola è viva e capace di produrre degli effetti, indipendentemente da coloro che l’annunciano e che l’ascoltano. A colui che la annuncia si richiede solamente di essere fedele al messaggio, così come a coloro che l’ascoltano è richiesto solo di aderirvi con la fede teologale; poi sarà la Parola di Dio che, come un seme depositato nella terra fertile, germoglierà per virtù sua, in ragione dell’energia vitale che Essa contiene. 
  Don Vincenzo Cuffaro 

martedì 13 maggio 2014

La comunità cristiana, dunque, non riceve dai suoi pastori indicazioni diverse da quelle che sente già nel cuore, perché lo Spirito di Dio agisce in essa, dandole un presentimento della volontà di Dio.


At 11,19-26 “Cominciarono a predicare la buona novella del Signore Gesù”
Salmo 87 “Popoli tutti lodate il Signore”
Gv 10,22-30 “Io e il Padre siamo una cosa sola”

I testi biblici di questa giornata - soprattutto il brano degli Atti - sviluppano un tema già accennato prima, completandolo dal punto di vista teologico. Il brano degli Atti descrive la scena della diffusione della Parola di Dio anche in territori di lingua greca e perciò tra luoghi e popoli non ebrei. C’è, nella liturgia odierna, un elemento caratteristico che in un certo senso completa l’insegnamento che già avevamo colto ieri, mediante la visione di Pietro e il suo incontro con Cornelio; abbiamo osservato già come l’evangelizzazione sia il frutto di una doppia chiamata, e abbiamo sentito l’invito a cambiare le nostre idee, abituati come siamo a pensare soltanto dal punto di vista di chi annuncia. Entrambi i ruoli, infatti, quello di chi annuncia e quello di chi ascolta, hanno un carattere creativo, e rappresentano una risposta libera e consapevole ad una chiamata di Dio, tanto se questa chiamata sia all’annuncio, quanto se essa sia all’ascolto.
Il brano di ieri, però, mancava di un elemento importante che viene aggiunto oggi nel racconto dell’evangelizzazione rivolta verso i Greci. Quest’elemento importante è rappresentato dalla comunità nel suo insieme, che evidentemente è spinta dallo Spirito di Dio, nella stessa direzione in cui Pietro era stato spinto. In sostanza, cosa vogliamo dire con questo? Vogliamo dire che lo Spirito di Dio non agisce soltanto nei pastori. Lo Spirito di Dio non si è limitato ad aprire la mente di Pietro su orizzonti d’evangelizzazione più vasti di quelli che la sua mentalità ebraica gli permetteva di vedere. Lo Spirito di Dio non si è limitato a questo, come se bastasse poi un comando di Pietro, per far sì che tutti dovessero conformarsi alla linea espressa dall’Apostolo. Il racconto di oggi dimostra piuttosto che i passi della Chiesa si sviluppano sulla base di un discernimento comunitario, e se anche l’Apostolo Pietro ha avuto una chiarezza particolare grazie a una rivelazione, tuttavia la comunità cristiana è innegabilmente spinta dallo Spirito di Dio nella medesima direzione. È molto chiaro, e non può per nulla essere frainteso questo testo, e in particolare questo versetto chiave: “Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù. E la mano del Signore era con loro” (vv. 20-21). La comunità cristiana, dunque, non riceve dai suoi pastori indicazioni diverse da quelle che sente già nel cuore, perché lo Spirito di Dio agisce in essa, dandole un presentimento della volontà di Dio. Anzi, dobbiamo aggiungere che il popolo cristiano avverte, per un discernimento derivante dallo Spirito, quando i suoi pastori sono santi e quando non lo sono; quando è guidato sulle vie del Signore e quando no; quando l’insegnamento che riceve è autenticamente evangelico o quando è una sua contraffazione. Nel momento in cui Pietro aprirà l’evangelizzazione e i tesori della fede anche ai pagani, la comunità cristiana riconoscerà nel comando di Pietro la volontà di Dio, perché la volontà di Dio, nel frattempo, si sarà già fatta strada nelle coscienze dei cristiani.
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 12 maggio 2014

L’incontro tra colui che annunzia e colui che ascolta non ha dunque mai nulla di casuale, perché è il risultato di una duplice divina elezione.


At 11,1-18 “Dio ha concesso anche ai pagani la conversione perché abbiano la vita”
Salmo 43 “Ha sete di te, Signore, l’anima mia”
Gv 10,11-18 “Il buon pastore offre la vita per le pecore

L’insegnamento della liturgia della parola odierna è incentrato intorno al tema dell’universalità della chiamata alla santità e, di conseguenza, l’universalità della chiamata all’ascolto del vangelo. Il brano evangelico di Giovanni si collega al testo degli Atti, grazie al v. 16: “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”, sottolineando come l’annuncio del vangelo sia destinato a tutti gli uomini senza alcuna distinzione. Non è quindi Israele l’unico destinatario della parola di salvezza e della chiamata alla santità: Gesù parla esplicitamente di altre pecore che ascolteranno la sua voce, altre pecore diverse dal gregge di Israele, e anche ad esse arriverà la parola del vangelo e il suono della voce del Pastore.
Alla domanda sul modo in cui si arriva alla conoscenza del vangelo, gli Atti rispondono narrando un episodio relativo al ministero dell’Apostolo Pietro, dove si sottolinea come la parola del vangelo raggiunga coloro che sono stati chiamati da Dio ad ascoltarla attraverso colui che è stato scelto per annunziarla. L’incontro tra colui che annunzia e colui che ascolta non ha dunque mai nulla di casuale, perché è il risultato di una duplice divina elezione. Colui che ascolta il vangelo, lo ascolta in quanto ha ricevuto la grazia di poterlo ascoltare, e proprio in questa chiamata all’ascolto deve cogliere un atto di predilezione con cui Dio lo ha amato; successivamente, la sua risposta determinerà la qualità dei frutti di santità che Dio si aspetta, dopo avere elargito i suoi doni.

domenica 11 maggio 2014

Cristo applica a Sé questa immagine per dire che, finalmente, i ladri e i briganti che usurpano il ruolo di pastori, entrando nel recinto ma non per la porta, hanno cessato di spadroneggiare.


At 2,14a.36-41 “Dio lo ha costituito Signore e Cristo”
Sal 22/23 “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”
1Pt 2,20b-25 “Siete stati ricondotti al pastore delle vostre anime”
Gv 10,1-10 “Io sono la porta delle pecore”

L’insegnamento odierno fa leva sull’idea del ritorno dalla dispersione. L’argomento non è trattato in maniera tipologica, come spesso avviene, partendo dalla dispersione degli Israeliti tra le nazioni, per poi giungere alla dispersione determinata dal peccato, ma è affrontato in modo diretto, senza metafore, dichiarando che l’esclusione di Dio dalla vita di una società umana, produce un disorientamento sempre crescente. Da qui l’esortazione dell’Apostolo Pietro a ritornare al Pastore per essere radunati (cfr. v. 25). Il tema del Pastore che raduna e preserva dalla dispersione è dunque centrale nella liturgia della Parola odierna, anche se è esplicitamente menzionato dalla seconda lettura e dal vangelo, ma non dalla prima lettura, la quale piuttosto fa riferimento alla signoria universale ottenuta da Cristo dopo la sua risurrezione. Nella prima lettura, comunque, il tema del raduno dalla dispersione è adombrato dall’accoglienza della Parola e dal Battesimo, che costituiscono la prima comunità cristiana: “quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (v. 41). Al tema centrale del raduno si collegano poi una molteplicità di spunti teologici che arricchiscono la liturgia odierna. Nelle parole di Pietro si intravede la nascita della Chiesa coi suoi elementi sacramentali indispensabili: il Battesimo e l’effusione dello Spirito. L’uno e l’altra hanno però bisogno di fondarsi su una opzione fondamentale per Dio, senza la quale non fiorisce alcuna novità di vita. Per questo il discorso dell’Apostolo inizia con un appello alla conversione. Va anche notato come egli mantenga la chiara distinzione tra due momenti, quello del Battesimo e quello dell’effusione dello Spirito: “ciascuno di voi si faccia battezzare […] e riceverete il dono dello Spirito Santo” (v. 38). La Chiesa si costituisce così come un raduno, come una divina convocazione: “quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro” (v. 39). L’idea del raduno dalla dispersione ritorna poi nel brano evangelico, ma in connessione con la metafora del pastore e del gregge. La signoria universale ottenuta dal Risorto, che Pietro annunciava nella prima lettura, si riveste di sollecitudine: il pastore è continuamente preoccupato della custodia del suo gregge, sia conducendolo ai pascoli migliori, sia proteggendolo dalle minacce delle bestie rapaci. Cristo applica a Sé questa immagine per dire che, finalmente, i ladri e i briganti che usurpano il ruolo di pastori, entrando nel recinto ma non per la porta, hanno cessato di spadroneggiare. Lui stesso infatti è la porta. Chi entra per altra via, prescindendo dal confronto con Lui, non è un pastore. Le pecore che hanno conosciuto il vero Pastore, non cadono più nell’inganno: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati” (v. 8). Adesso il gregge di Cristo sa chi seguire. L’Apostolo Pietro, a conclusione della seconda lettura, sintetizza la condizione felice del nuovo popolo di Dio con queste parole: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (v. 25). Pietro sottolinea inoltre che per i cristiani il Pastore è anche Maestro; il suo modo di essere uomo e di affrontare la vita è un punto riferimento per l’agire cristiano: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (v. 21).
Don Vincenzo Cuffaro

sabato 10 maggio 2014

il Signore sa dosare perfettamente, tanto nel cammino individuale quanto in quello della Chiesa nel suo insieme, l’alternanza della prova e della consolazione, della persecuzione e della pace, che, come avviene per le stagioni che si susseguono sulla terra, garantiscono la fioritura della vita cristiana.


At 9,31-42 “La Chiesa cresceva, colma del conforto dello Spirito Santo”
Salmo 115 “Ti rendo grazie, Signore, perché mi hai salvato”
Gv 6,60-69 “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”

Le letture di questo giorno presentano chiaramente l’azione dello Spirito in quanto datore di vita, che agisce nella parola della predicazione apostolica. Così, negli Atti degli Apostoli, Pietro è raffigurato nel suo ministero di guarigione, ministero derivante a sua volta da quello della Parola, che infatti, nel vangelo odierno, è definita da Cristo “Spirito e vita”. Questa Parola, che Cristo stesso consegna ai suoi Apostoli perché la trasmettano alla Chiesa, non soltanto fa conoscere Dio, comunicando delle informazioni su di Lui, ma introduce soprattutto la comunità cristiana nella dinamica della salvezza, ossia in una nuova energia di vita che è capace di vincere qualunque genere di infermità e di morte.
Il versetto chiave che collega le due letture è costituito da Gv 6,63: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. Questa espressione, accostata al testo degli Atti, offre una particolare chiave di lettura per il ministero di guarigione di Pietro, che sembra essere la conseguenza naturale del ministero della Parola. Colui che è chiamato da Dio a far risuonare la Parola, essendo la Parola essa stessa Spirito, comunica la vita a coloro che l’accolgono nella fede, e ciò si verifica per una forza intrinseca che opera nella predicazione e che manifesta tutta la sua efficacia in coloro che credono.
Il testo degli Atti si apre descrivendo un periodo di pace che la prima comunità cristiana sperimenta come una tregua tra le persecuzioni da parte del giudaismo. Gli Atti degli Apostoli non raccontano soltanto le persecuzioni – ci sono stati indubbiamente dei tempi difficili di condanna, di carcere, di fustigazione per la prima generazione dei cristiani e si è visto come questi tempi difficili siano accompagnati da una particolare vicinanza di Dio - ma raccontano anche i tempi di pace, perché non si creda che la vita cristiana, pur essendo incentrata sul mistero pasquale di morte e risurrezione sia solo combattimento, persecuzione e prova; è anche questo, ma il Signore sa dosare perfettamente, tanto nel cammino individuale quanto in quello della Chiesa nel suo insieme, l’alternanza della prova e della consolazione, della persecuzione e della pace, che, come avviene per le stagioni che si susseguono sulla terra, garantiscono la fioritura della vita cristiana.
L’evangelista Luca, nel testo odierno degli Atti, descrive dunque un tempo di pace che Dio ha garantito alla Chiesa e che viene identificato, nella sua modalità, da due espressioni relative all’atteggiamento della Chiesa: “essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9,31). La gioia cristiana è infatti qualcosa di diverso che non semplicemente un benessere, una condizione gradevole alla propria sensibilità. La gioia cristiana è qualcosa di più profondo, è soprattutto un dono che scende dall’alto, più che la conseguenza di una tregua, o il frutto di circostanze favorevoli. Per questo, il conforto dello Spirito viene collegato da Luca al timore del Signore, intendendo dire che nessuno può gustare la gioia dello Spirito senza sottomettersi incondizionatamente ai decreti di Dio, all’alternanza dei tempi stabiliti da Lui, al modo in cui Egli dosa pace e persecuzione, sofferenza e consolazione. Tale dosaggio risponde a una logica comprensibile solo all’intelligenza divina. Tutt’al più può avvenire che nel volgere di lunghi anni, e dopo tante evoluzioni, possiamo acquisire maggiori elementi per capire un po’ di più l’opera di Dio nella nostra vita. E ciò nel contesto di una incondizionata e perseverante sottomissione a quel che Dio decreta per noi, giorno dopo giorno, anche quando lo scopo ultimo degli eventi non è subito comprensibile. Perciò il timore del Signore, che rappresenta appunto il sentimento che accompagna l’ubbidienza del figlio, è la base su cui il conforto dello Spirito può diffondersi nella vita della Chiesa come anche in quella del singolo credente.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 9 maggio 2014

un uomo che non ha forza di volontà, che non ha lo slancio di impegnare la propria vita per un ideale e la disponibilità a soffrire per portare avanti ciò in cui crede, difficilmente potrà giungere ad un’esperienza piena della fede cristiana

At 9,1-20      “Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli”
Salmo 117    “Splenda sul mondo, Signore, la luce del tuo vangelo”
Gv 6,52-59   “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”

La liturgia odierna accosta il brano della conversione di Saulo, narrato nel libro degli Atti, al testo evangelico di Giovanni, dove Gesù parla del proprio Corpo come cibo e nutrimento dell’uomo; colui che mangia di Cristo, vive di Cristo, ossia della sua stessa Vita. Il testo degli Atti, narrando la conversione di Saulo, ci lascia anche intravedere delle verità che accompagnano il venire alla fede di ogni uomo in ogni tempo:  Saulo, il persecutore dei cristiani, viene presentato nell’atto di arrestare e condurre in catene a Gerusalemme, uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo; ma al tempo stesso, proprio nel bel mezzo di questo combattimento contro la comunità cristiana, Saulo viene raggiunto da Dio nel Cristo risorto, che si rivela a lui come “il Signore”. Questo è un primo elemento che va sottolineato, e che vale non soltanto per la conversione di Saulo ma anche per ogni conversione e ogni processo del venire alla fede. Nessuno può giungere infatti a una scelta precisa, o a uno schieramento nei confronti di Dio, se non è capace di schierarsi in qualche modo anche in altri ambiti; in sostanza, un uomo che non ha forza di volontà, che non ha lo slancio di impegnare la propria vita per un ideale e la disponibilità a soffrire per portare avanti ciò in cui crede, difficilmente potrà giungere ad un’esperienza piena della fede cristiana.
La descrizione di Saulo come uno sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, è l’immagine di un uomo capace di impegnarsi per degli ideali e di giocarsi la vita per un valore di coscienza. Saulo come persecutore non è un uomo che arbitrariamente agisce solo per il gusto della violenza, per un abuso di potere o un desiderio gratuito di combattere solo per contrapporsi a qualcosa. Non è certamente questa la verità dell’uomo Saulo; la persecuzione che egli porta avanti contro i cristiani rappresenta uno schieramento, una scelta di coscienza unita alla convinzione di portare avanti i propri ideali migliori e di combattere contro ciò che per lui è una dottrina fuorviante, un’eresia del giudaismo. Proprio perché Saulo è un uomo capace di schierarsi e di impegnare le proprie energie per un ideale, in forza di questa sua disposizione d’animo viene raggiunto dalla rivelazione di Cristo che gli chiede di orientare nella direzione giusta tutte le proprie energie al servizio autentico di Dio. Saulo era in coscienza convinto che perseguitare i cristiani fosse già un servizio al Regno di Dio.
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 8 maggio 2014

E’ Dio che prepara incontri e coincidenze nel tempo opportuno


At 8,26-40 “Filippo annunziò all’etiope la buona novella di Gesù”
Salmo 65 “La tua salvezza, Signore, è per tutti i popoli”
Gv 6,44-51 “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”

La Parola odierna ruota intorno ad un detto profetico, citato esplicitamente da Gesù nel suo discorso rivolto alle folle: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio” (v. 45). Ma l’ammaestramento derivante da Dio non implica un rapporto solipsistico e personale, che ciascuno debba stabilire con Dio, come se la persona umana fosse una monade o un’isola indipendente. Il testo degli Atti, che è accostato oggi al brano evangelico di Giovanni, sembra voler rispondere a questo problema, a cui non si ci può sottrarre: l’annuncio profetico indica un tempo in cui tutti saranno ammaestrati da Dio. Ma in cosa consiste essere ammaestrati da Dio? Consiste forse in un rapporto autonomo con la verità? Si tratta di un filo diretto con il Signore, di cui ciascuno può fruire, o è qualcos’altro?
A questa domanda risponde il racconto degli Atti, mediante l’incontro di Filippo con un funzionario della regina di Etiopia. Il loro incontro è una risposta narrativa alla domanda di partenza: “cosa significa essere ammaestrati da Dio?”. I versetti chiave di questo testo lucano ci aiuteranno a cogliere le caratteristiche reali e, potremmo anche aggiungere, ecclesiali dell’essere ammaestrati da Dio. Il testo odierno si apre con un’introduzione che suona così: “In quei giorni, un angelo del Signore parlò a Filippo” (v. 26). Il contenuto di questa comunicazione divina è: “Alzati, e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza” (v. 26); su questa strada Filippo incontrerà l’Etiope, funzionario della regina Candace. Qui troviamo una prima risposta alla domanda su come si è ammaestrati da Dio. Il Signore manda un messaggero, che in questo caso è Filippo, per farci conoscere la sua Parola. A sua volta il messaggero, ossia colui che custodisce la testimonianza della verità del vangelo, non sceglie né il luogo né il destinatario della sua testimonianza: un angelo del Signore parlò a Filippo e gli disse: “Alzati e va verso mezzogiorno sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza”. L’indicazione è terribilmente particolareggiata nello spazio e nel tempo: in quel luogo e in quell’ora, Dio ha predisposto un incontro che sarà l’inizio della salvezza per il funzionario della regina. Allora, se ci chiediamo di nuovo “Come si è ammaestrati da Dio?”, possiamo rispondere così: “Mediante i suoi messaggeri, i quali non scelgono né il luogo, né il tempo, né i destinatari. E’ Dio che prepara incontri e coincidenze nel tempo opportuno”.  
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 7 maggio 2014

ancora una volta siamo ricondotti fino al cuore del cristianesimo: il “mistero pasquale”, stupenda strategia con cui il Signore vince attraverso la sua apparente sconfitta


At 8,1-8 “Andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio”
Salmo 66 “Grandi sono le opere del Signore”
Gv 6,35-40 “Questa è la volontà del Padre: chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita”

In entrambi i testi della liturgia odierna viene sottolineato che Dio “non è il Dio dei morti, ma il Dio vivente, e tutti vivono per Lui”, per utilizzare un detto di Gesù ai sadducei; Egli agisce in favore della vita, comunicando la vita. Così, il testo lucano presenta l’evangelizzazione della Palestina, e focalizza in particolare la figura di Filippo: il suo passaggio è un trionfo della vita, è la salute che si irradia intorno al passaggio dell’Apostolo. Sulla scia dell’annuncio della Parola del vangelo vengono liberati gli indemoniati, guariti i paralitici: “Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati” (v. 7). Così, ripetutamente, nel testo evangelico torna il tema della volontà di Dio che è la salvezza dell’uomo e non la sua rovina: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno… chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (vv. 39-40).
In particolare, il testo degli Atti sottolinea alcuni aspetti del passaggio della vita, che si realizza sempre laddove il vangelo viene annunciato nello Spirito. In primo luogo, dal racconto si evince che la persecuzione accompagna ogni atto di servizio autentico al Regno di Dio: ogni atto di autentica obbedienza alla volontà di Dio si scontra con una incomprensibile opposizione, che assume tante forme, talvolta violente talaltra occulte, esplicite o implicite. Il mistero dell’iniquità è sempre operante nel mondo e si erge ovunque a barriera contro la verità del vangelo. Lo stesso diacono Stefano, che poi verrà lapidato, nel discorso pronunciato davanti al sinedrio dice: “Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato?” (At 7,52); non c’è nessuno che, incamminatosi autenticamente nelle vie di Dio, non si scontri prima o poi con il mistero dell’iniquità e con l’azione segreta e occulta dello spirito delle tenebre. Quando il cammino cristiano diventa profondo, diventa anche pericoloso per il regno di Satana; allora cominciano delle lotte, degli impedimenti in diversi campi, cominciano strane incomprensioni familiari, che prima della conversione non si erano mai verificate. Insomma, scoppia una guerra che si combatte principalmente a livello dello spirito. Luca osserva, però, che l’opposizione dello spirito delle tenebre contro il vangelo, non fa che aumentare la sua efficacia; l’azione del Maligno, che tenta di frenare il cammino di santità, non fa altro che renderlo più veloce, aumentando la santità del battezzato. Almeno per coloro che sanno affrontare tali tribolazioni con spirito evangelico. Infatti, dopo avere detto che “In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa” (v. 1), Luca aggiunge: “quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio” (v. 4). La diffusione maggiore della Parola di Dio è, insomma, una conseguenza diretta della persecuzione che si è scatenata contro la chiesa di Gerusalemme. Filippo personifica perciò l’efficacia che la Parola di Dio acquista quando viene combattuta dal suo avversario; ancora una volta siamo ricondotti fino al cuore del cristianesimo: il “mistero pasquale”, stupenda strategia con cui il Signore vince attraverso la sua apparente sconfitta; così come Cristo vince attraversando la morte, nella stessa maniera, la Chiesa fiorisce tutte le volte in cui viene colpita.
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 6 maggio 2014

La forza di questa sapienza ispirata deriva dal pieno coinvolgimento personale di Stefano nel disegno Dio e nella verità che lui testimonia vivendola fino in fondo, tanto che sarà capace di morire per essa.


At 7,51-8,1 “Signore Gesù, accogli il mio spirito”
Salmo 31 “Alle tue mani, Signore, affido la mia vita”
Gv 6,0-35 “Non Mosè, ma il Padre mio vi da il pane dal cielo”


Abbiamo già visto come, nel brano della prima lettura di ieri, il Signore sostiene la testimonianza dei suoi servi. La divina convalida dell’autenticità dei servi di Dio, non avviene in primo luogo in maniera carismatica, bensì mediante la forza della verità che si irradia nella vita e nella parola di chi vive nello Spirito. Il momento della convalida carismatica della santità di Stefano, infatti, come abbiamo già visto, arriva soltanto alla fine del brano, quando contro di lui si erge la durezza e la persecuzione della sinagoga. Ma in un primo momento, la maniera normale con cui Dio convalida la sua santità, non è il miracolo, né il segno carismatico. È soltanto la luminosità della propria vita, dinanzi alla quale si ha l’impressione di un messaggio che s’impone con la forza stessa della verità, appunto perché non è fatto esclusivamente di parole, ma è un messaggio che emana, per così dire, dalla persona del servo di Dio. Per questa ragione, Luca, autore degli Atti, nel raccontare il brano della persecuzione contro Stefano, sottolinea il fatto che egli parla con una sapienza ispirata e irresistibile per i suoi avversari. Non si tratta quindi di parole, di retorica, o di argomentazioni persuasive. La forza di questa sapienza ispirata deriva dal pieno coinvolgimento personale di Stefano nel disegno Dio e nella verità che lui testimonia vivendola fino in fondo, tanto che sarà capace di morire per essa. Stefano attribuisce al peccato contro lo Spirito l’incapacità della sinagoga giudaica di riconoscere la verità della sua testimonianza. In termini pratici: tutte le volte in cui ci si trova davanti una persona che vive la sua fede cristiana fino in fondo, e che esprime con la sua vita un messaggio convincente, il fatto di rifiutare tale messaggio costituisce in se stesso un peccato contro lo Spirito. Si può resistere, infatti, a una testimonianza fatta di parole, che magari non reggono al confronto con la vita di chi le ha pronunciate; ma quando la parola della testimonianza cristiana è pienamente armonizzata con la vita del testimone, e questo messaggio non è accolto come veritiero dai suoi destinatari, allora in ciò si può dire senz’altro che consista una delle forme del peccato contro lo Spirito. 
Don Vincenzo Cuffaro 

lunedì 5 maggio 2014

la prima conferma della verità del vangelo, è interna, e si realizza nei termini di una interiore attestazione dello Spirito nella coscienza degli ascoltatori. Questa conferma è molto più forte di quella dei segni carismatici, in quanto è interiore, mentre il miracolo è sempre un fenomeno esterno.


At 6,8-15 “Non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui Stefano parlava”
Salmo 119 “Beato chi cammina nella legge del Signore”
Gv 6,22-29 “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna”

L’insegnamento delle letture di questa giornata ci riporta alla natura della testimonianza cristiana, nel suo carattere duplice, in quanto Dio conferma la testimonianza del cristiano con la sua. Possiamo parlare in senso proprio di evangelizzazione e di testimonianza cristiana solo quando il Signore opera contemporaneamente ai suoi discepoli, confermando la testimonianza umana coi segni che l’accompagnano. Questo tema viene affrontato dalle letture odierne con la precisazione che, anche quando la testimonianza cristiana e l’evangelizzazione sono autentiche, questo fatto non comporta necessariamente una conversione dei destinatari dell’annuncio. In sostanza, è vero che Dio conferma sempre la parola dei suoi servi, ma tale conferma non costituisce un’imposizione della conversione. Se da un lato è necessario che Dio confermi, con la sua azione potente, la vita e la parola dei suoi servi, perché l’evangelizzazione sia autentica, dall’altro lato, la libertà dei destinatari non ne viene minimamente intaccata.
La figura del diacono Stefano incarna l’ideale dell’evangelizzazione in cui Dio conferma la parola del suo servo, lasciando tuttavia libera la decisione dei destinatari; notiamo subito che il modo in cui il Signore interviene per confermare la parola di Stefano non è in un primo momento di natura carismatica. È vero che la Parola della predicazione può essere accompagnata da segni carismatici, ma non è necessario che essi ci siano: infatti, la conferma divina non si esaurisce nei segni straordinari dello Spirito Santo; anzi, la prima conferma della verità del vangelo, è interna, e si realizza nei termini di una interiore attestazione dello Spirito nella coscienza degli ascoltatori. Questa conferma è molto più forte di quella dei segni carismatici, in quanto è interiore, mentre il miracolo è sempre un fenomeno esterno. Sono in errore coloro i quali ritengono che un segno carismatico forte, possa convincere gli atei dell’esistenza di Dio. Essi dimenticano che dopo la risurrezione di Lazzaro, i farisei deliberarono di uccidere anche lui (cfr. Gv 12,10), e che il ricco epulone, desiderando che i suoi fratelli si convertissero dalla loro vita scioperata, chiese ad Abramo di mandare loro qualcuno dall’aldilà per avvertirli, sentendosi rispondere però: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro. Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti, sarebbero persuasi” (Lc 16,29-31). Questa risposta di Abramo è di estremo interesse, in quanto nega al miracolo una qualche efficacia di convincimento; il segno carismatico, quando c’è, è inevitabilmente esteriore. La forza della verità, invece, si afferma nella coscienza dell’uomo retto, senza alcun appoggio esteriore. Chi non si sente intimamente conquistato dalla forza della verità, difficilmente potrà essere conquistato esteriormente da un evento straordinario, la cui interpretazione potrebbe essere comunque manipolata ad arte. Nell’ipotesi che Abramo avesse acconsentito alla richiesta del ricco epulone, e avesse mandato qualcuno dall’aldilà ad avvertire i suoi fratelli, chi avrebbe potuto scalfire le loro convinzioni materialistiche, nel caso in cui avessero interpretato l’apparizione del defunto Lazzaro, come un’allucinazione o come un sogno a occhi aperti? E in definitiva, a queste condizioni, la visita del defunto dall’aldilà, non avrebbe confermato il loro ateismo, anziché metterlo in crisi?
Don Vincenzo Cuffaro