sabato 14 gennaio 2012

Dio lo accoglierà festoso

Beato chi veglia in povertà di cuore,
l’amore di Dio è il suo regno.
Beato chi non mostra mai i pugni,
il fiore di Dio cresce nelle sue mani.
Beato chi soffre per amore,
il sangue di Dio scorre nelle sue vene.
Beato chi cerca la giustizia,
il cuore di Dio gli si offre.
Beato chi continua a perdonare,
la gioia di Dio è il suo segreto.
Beato chi sa vedere con occhi di bambino,
il volto di Dio si rivela al suo sguardo.
Beato chi dona la propria vita per la pace,
le braccia di Dio lo attendono.
Beato chi rischia tutto per me,
il canto di Dio lo accoglierà festoso.
(LEBRET)

venerdì 13 gennaio 2012

uscirete da quella porta

Il Padre nostro è la preghiera che preferisco. Primo perché l'ha insegnata Gesù. Secondo perché mi permette di dire ai miei ragazzi: "Potete anche non recitarla, perché san Benedetto non vi costringe, ma se decidete di farlo, ricordate che il Padre nostrosignifica che siamo tutti figli e figlie, fratelli e sorelle. Dal momento in cui uscirete da quella porta, chiunque incontriate sarà vostro fratello o sorella". Da questo non si scappa. (don Andrea Gallo)

giovedì 12 gennaio 2012

Cos’è questa storia di dolori e stanchezza, e ira, scontento e speranze cadute?


Lucinda Matlock

Andavo a ballare a Chandlerville,
e giocavo a carte a Winchester.
Una volta ci scambiammo i cavalieri
al ritorno in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
divertendoci, lavorando, crescendo dodici figli,
otto dei quali ci morirono,
prima che arrivassi a sessant’anni.
Filavo, tessevo, tenevo in ordine la casa, assistevo i malati,
curavo il giardino, e alla festa
andavo a zonzo per i campi dove cantavano le allodole,
e lungo lo Spoon River raccogliendo molte conchiglie,
e molti fiori ed erbe medicinali—
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze cadute?
Figli e figlie degeneri,
la vita è troppo forte per voi—
ci vuole vita per amare la Vita.

(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)

mercoledì 11 gennaio 2012

cosa cambia nella nostra vita dacché siamo cristiani?

A proposito della premessa sulla mia ignoranza al post di ieri. oggi approfitto di quanto riporto sotto per questo esame di coscienza.
 Provate un giorno a calcolare quanti chilometri avete fatto nella vostra vita per venire in chiesa, quante ore avete trascorso tra Messe, rosari, confessioni, ritiri, catechesi, in tutta la vostra vita... È cambiato qualcosa? Potete dire come san Paolo «Io che per l’innanzi fui un bestemmiatore e un persecutore di cristiani, divenni apostolo»? O forse con sant’Agostino potete esclamare «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova!»? O può darsi che come Teresa di Calcutta anche voi abbiate deciso di scegliere i più poveri tra i poveri, dopo aver visto la gente morire per le strade. E perché non pensare a quello che accadde a Charles de Foucauld, al quale un prete, dopo averlo fatto inginocchiare, fece confessare i propri peccati? Da lì partì la sua conversione, che lo portò a meditare per lunghi anni i vangeli per poi vivere in mezzo ai Tuareg e morire martire... Oppure siete come Gianna Beretta Molla che dovendo scegliere tra le cure per un tumore e la vita che portava in grembo scelse quest’ultima? O infine – ma gli esempi potrebbero continuare all’infinito – siete come Edith Stein, la donna tedesca di origine ebraica che avendo davanti una carriera luminosa nell’Università, si fece battezzare, entrò in convento e ne uscì su un camion dei nazisti con destinazione un campo di concentramento? In altre parole – che corrono il rischio di essere troppo banali – cosa cambia nella nostra vita dacché siamo cristiani? Abbiamo scelto di seguire Gesù, oppure è una bella abitudine, perché ci hanno insegnato così...? La preghiera ci trasforma in persone sempre più capaci di amare, o in persone piene di risentimento, di acredine, di acidità? L’Eucaristia ci trasforma in persone che sanno fare eucaristia (cioè ringraziamento) e comunione con il prossimo, oppure è un modo per rasserenare la nostra coscienza? Desideriamo davvero la santità, o soltanto la pace con noi stessi? Perché se desideriamo la santità, cari amici miei, dobbiamo ricordare che essa passa per una “notte” , per un “tradimento”, per una “presa di posizione”, per una “frattura”, per una “consegna”, per un abbandono totale a tutti. Questo infatti dice la santa liturgia nel racconto eucaristico: «Nella notte in cui (Gesù) fu tradito egli prese il pane, lo spezzò, lo diede ai discepoli dicendo: prendete emangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto per voi». Accettare la logica eucaristica, dunque, significa entrare nel nuovo mondo, nella santità stessa di Dio che si dona all’uomo. E non ditemi che la santità è solo per poche anime elette, perché non è vero: Lui, il Santo per eccellenza, santifica anche noi attraverso i suoi doni, abilitandoci ad amare, a rispettarci, a perdonare, a porre gesti di pace dove gli altri pongono dichiarazioni di guerra, a dire la verità dove gli altri mettono menzogna, a fare un sorriso dove gli altri mi tengono un muso chilometrico... Forse molti lasciano la Chiesa anche perché non trovano testimonianza credibile di amore, di pace, di gioia nella comunità cristiana. La preghiera chilometrica e meccanica non ci converte: «Non crediate di essere ascoltati a forza di parole», aveva avvertito Gesù. La preghiera silenziosa, di adorazione, di amore, di tenerezza adorante, quella ci converte perché toglie da noi il male e ci riempie di Dio. Finisce il tempo di Natale, con l’Epifania e il Battesimo del Signore. Egli è già adulto e accoglie da Dio la missione di essere per tutti il Figlio prediletto che conduce al Padre. Se lo seguiamo possiamo accedere alla strada dell’amore, a quell’amore che ci fa fare miracoli e ci fa diventare santi. E allora, forse, scopriremo che la preghiera, i sacramenti, la meditazione, ci hanno aiutato a crescere in questa compagnia con Gesù, a crescere nell’amore! Buona strada a tutti, soprattutto a chi ha il cuore chiuso e deve ancora aprirlo a Dio e al prossimo!
Marco Statzu parroco del Sacro Cuore in Gonnosfanadiga, docente di Antropologia Teologica nella Facoltà Teologica della Sardegna...

martedì 10 gennaio 2012

mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale

Quando tempo fa qualcuno che mi è molto caro mi chiese ragione dell'Eucarestia, confesso, che mentre rispondevo, capivo come era inadeguato il mio vocabolario, specchio dell'ignoranza profonda che possiedo. Forse per porre un po' di rimedio, posto questa bellissima pagina di un autore che amo molto. Ogni parola, ogni frase fa vibrare il cuore nel mistero di questo grande sacramento. E' un inno teologico, degno di San Tommaso d'Acquino o di sant' Agostino.

Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell'Aisne ma nelle steppe dell'Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull'altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo.
Lì in fondo, il Sole, appena incomincia ad illuminare l'estremo lembo del primo Oriente. Ancora una volta, sotto l'onda delle sue fiamme, la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio. Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti.
Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un'anima ampiamente aperta alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra, si eleveranno e convergeranno nello Spirito. Vengano pertanto a me il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata.
Ad uno ad uno, o Signore, li vedo e li amo tutti quelli che mi hai dato quale sostegno e gioia naturale della mia esistenza. Ad uno ad uno, conto anche i membri di quell'altra e tanto cara famiglia che, a poco a poco, a partire dagli elementi più disparati, è stata riunita attorno a me dalle affinità del cuore, della ricerca scientifica e del pensiero. Più confusamente, ma tutti senza eccezione, evoco coloro la cui folla anonima costituisce la massa innumerevole dei viventi: quegli ignoti che mi circondano e mi sostengono a mia insaputa, quelli che vengono e quelli che se ne vanno, e soprattutto quelli che, nella verità od in seno all'errore, hanno fede nel progresso delle cose e, nell'ufficio, nel laboratorio o nella fabbrica, oggi, con passione, inseguiranno la luce.
Moltitudine agitata, imprecisa o distinta, la cui immensità ci spaventa, - Oceano umano le cui lente e monotone oscillazioni incutono il dubbio persino nei,cuori più credenti, voglio che, in questo momento, il mio essere risuoni al suo mormorio profondo. Tutto ciò che, durante la giornata, crescerà nel Mondo, tutto ciò che in esso diminuirà, - ed anche tutto ciò che vi morirà, - ecco, o Signore, l'elemento che mi sforzo di raccogliere in me per presentarlo a Te. È questa la materia del mio sacrificio, quell'unico sacrificio di cui Tu abbia voglia.
Una volta, trascinavano nel tuo Tempio le primizie del raccolto e il fiore del gregge. L'offerta che Tu attendi realmente, quella di cui Tu senti ogni giorno il misterioso bisogno per sfamarti e dissetarti, è nulla meno dell'accrescimento del Mondo travolto dall'universale divenire.
Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla Tua attrazione, presenta a Te nell'alba nuova. Questo pane, il nostro sforzo, so bene che, di per sé, è solo una disgregazione immensa. Questo vino, la nostra sofferenza, non è purtroppo, sinora, che una bevanda dissolvente. Ma, in seno a questa massa informe, hai messo ne sono sicuro perché lo sento - un'irresistibile e santificante aspirazione che, dall'empio al fedele, ci fa tutti esclamare: «O Signore, rendici uno!».
E, poiché, in mancanza dello zelo spirituale e della sublime purezza dei tuoi santi, Tu mi hai dato, o Signore, una simpatia irresistibile per tutto ciò che si agita nella materia oscura, - poiché riconosco in me, senza rimedio, ben più di un figlio del Cielo, un figlio della Terra, - salirò stamane, in pensiero, sulle più alte vette, carico delle speranze e delle miserie di mia madre, e lassù. - in forza di un sacerdozio che solo Tu, credo, mi hai conferito, - su tutto ciò che, nella Carne dell'Uomo, si prepara a nascere od a perire sotto il Sole che spunta, io invocherò il Fuoco. (P. Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo, Queriniana, 9-10)

lunedì 9 gennaio 2012

la notte albeggia


Mi è piaciuta la semplicità di questa poesia di Renzo Montagnoli. La propongo anche se Natale è passato, tra le ombre brulicanti del nostro cammino la domanda incerta e timorosa si fa dichiarazione di fede.

Sei tu Gesù
C'è forse ancor oggi
una capanna
di pastori del deserto
in cui la notte albeggia
un astro di calda luce.
Ti cerco da tempo, Gesù,
ma non ti scorgo
nelle mille ombre
brulicanti sul pianeta.
Eppure

Se guardo il volto sfatto
di una madre che implora
cibo per il suo bambino

Se cerco fra la folla
l'umile sguardo
di chi procede nel silenzio

Se mi soffermo
davanti al vecchio mendicante
che tende la mano stanca

Se i miei occhi incontrano
quelli di chi
soffocato ormai dall'ingiustizia
lotta ancora per tutti questi vinti
per tutti questi uomini che nulla hanno
perché a loro tutto è stato tolto

Allora ad uno ad uno chiedo:
Sei forse tu, Gesù?
E nel silenzio che segue le mie parole
é il cuore che risponde
e dice
Sei tu Gesù.

domenica 8 gennaio 2012

l’autentica gioia che viene a soffiare attraverso questa preparazione


IL PRANZO DI BABETTE

Molti anni fa ho visto quel bellissimo film-  Mi è rimasta nel cuore l’autentica gioia che viene a soffiare attraverso questa preparazione. Sento questa aura quando invito gli amici a pranzo per irrompere nella grigia atmosfera di un mondo pervaso di freddi e insinceri rapporti.





“Allora Martina disse: ’E adesso sarete povera per tutta la vita, Babette?’. ‘Povera?’ disse Babette. Sorrise come a se stessa. ‘No. Non sarò mai povera. Ho detto che sono una grande artista. Un grande artista, mesdames, non è mai povero. Abbiamo qualcosa, mesdames, di cui gli altri non sanno nulla’." (K.Blixen, Capricci del destino, Il pranzo di Babette, Feltrinelli 2003). In un villaggio che pareva un paese in miniatura con case gialle, rosa e di altri colori, appoggiato su di un fiordo norvegese, alla fine dell’Ottocento è ambientata la vicenda narrata da Karen Blixen e ripresa dal regista Gabriel Axel ne Il pranzo di Babette (1987). In quel freddo paese un pastore protestante vedovo ha fondato una comunità impostata sui dettami di una spiritualità cupa e rigorosa. Le sue due figlie ricche di fascino e di doti, sono però trattenute dallo sposarsi per l’atteggiamento puritano e l’egoismo del padre. Erano state chiamate Martina e Filippa in onore di Martin Lutero e del suo amico Filippo Melantone. Con il tempo rimangono zitelle, rifiutando ogni offerta di matrimonio benchè in particolare due loro pretendenti abbiano avuto per loro sinceri sentimenti d’amore: un giovane ufficiale e un celebre tenore francese. Dopo la morte del padre continuano loro a condurre la vita della piccola comunità. Improvvisa e inattesa si presenta una donna francese, Babette Hersant, proveniente da Parigi, fuggita come rivoluzionaria nei giorni della Comune, con una lettera di raccomandazione del tenore, l’antico corteggiatore, che chiede loro di tenerla come governante. Le sorelle, al principio restìe, accettano solamente quando comprendono che il servizio loro offerto da Babette è a titolo gratuito. Così la straniera per molto tempo lavora partecipando alle attività di beneficenza della congregazione che si assottiglia pogressivamente. Dopo circa quindici anni dalla Francia giunge una lettera che comunica a Babette una notevole vincita di denaro alla lotteria. Babette chiede così, in quell’occasione, alle ormai anziane sorelle di poter preparare e offrire un pranzo alla comunità. Nell’atmosfera cupa fatta di ottusità e piccoli litigi, Babette, senza far nulla trapelare, spende tutto il denaro della vincita facendo giungere da Parigi cibi prelibati, vini, salse raffinate, spezie sconosciute ed insieme piatti di ceramica, tovaglie di stoffe pregiate e stoviglie per l’occasione. Prepara così un banchetto che diviene un tripudio di cibi, colori, sapori, profumi. Questo evento produce un cambiamento radicale nel gruppo, e casualmente al pranzo si ritroverà anche il giovane ufficiale divenuto ormai vecchio generale. Alla logica gretta e religiosamente meschina rappresentata nel film dal pastore, che conduce la sua vita trattenendo per sé la vita delle figlie, impedendo loro di vivere l’amore, ma anche al clima di litigi, piccole invidie e rigorismo puritano della comunità, è contrapposto l’arrivo timido ma dirompente, quasi una forza della natura, di Babette. Il pranzo che ella prepara – manifestando la libertà dell’artista - è il trionfo della dimensione dei sensi, e l’espressione della capacità trasformante del cibo e della convivialità per l’uomo. Il tutto nel clima della sparuta congregazione dominato dalla paura dell’inferno. Le scene che descrivono la preparazione del pranzo introducono in una suggestione particolare e fannno cogliere il genio, la creatività e l’autentica gioia che viene a soffiare attraverso questa preparazione. Il pranzo e i dialoghi attorno alla tavola costituiscono il momento centrale del film. Lì si compie il sacrificio di tutto quello che Babette aveva – spende tutto il denaro che possedava per questo momento – ma anche miracolosamente in quel momento il gelo che attanagliava la comunità si scioglie e s’apre ad una comunicazione sincera, senza ipocrisie, fino ad un impensabile girotondo. Nel mangiare insieme quel cibo, arrivato come dono, si attua una metamorfosi ed una liberazione: tutta la storia passata è vista con sguardo sereno e pacificato. Soprattutto emerge un sentimento di amore che si fa, al pari dei cibi, nutrimento di parole, gesti, sguardi. Babette, la sconosciuta, che ha speso tutto, dopo una vita di servizio, diviene colei che fa irrompere nella grigia atmosfera di un mondo pervaso da una religiosità oppressiva, un’illuminazione che cambia la vita e fa di un pranzo un atto d’amore e di comunicazione. “Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro dicendo: prendete questo è il mio corpo” (Mc 14,22).
 Alessandro Cortesi op