mercoledì 12 gennaio 2011

un prete osserva, contempla, ama la Messa della sua parrocchia un testo che scava il cuore e la mente

Non una Messa pontificale, non una Messa in una basilica o in una abbazia benedettina, ma la più
povera delle Messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti.
La nostra chiesa è la più povera delle chiese.
Il vescovo non s’illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che,
quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.
Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s’intona assai bene con la Messa e fa
meno paurosa la nostra povertà.
Quale preparazione possiamo fare noi poveri parroci, alla nostra Messa parrocchiale della domenica?
La liturgia è un momento composto, dicono alcuni. Vorrei che qualche mio confratello di città venisse a
celebrare da me la domenica. Dopo, potrebbe parlare con più competenza di «momento composto».
Dov’è il popolo? La chiesa è ancora vuota. O perché piove, o perché fa caldo, o perché gela: bisogna
attendere, i nostri clienti non hanno fretta.
Andiamo in sacrestia. Il sacrista è sbadato: i chierichetti litigano per il primo posto, come gli apostoli...
Finalmente, ci si avvia all’altare. Il momento richiederebbe il massimo raccoglimento: ma come si fa a
non dare uno sguardo alla navata per vedere se c’è gente e come sta?
Adesso salgo l’altare. Incomincia la Messa parrocchiale.
L’abbiamo tanto desiderata la nostra Messa domenicale!
Quella di ogni giorno è così sola...
La domenica invece è la nostra giornata. Non so immaginare un parroco che non aspetti la domenica,
anche se faticosa. Alla domenica io mi sento veramente padre, non sono più il solitario del
presbiterio. Il Signore, la domenica, mi dà una famiglia.
S’avvia il colloquio tra noi e il nostro popolo.
Esso continua gli incontri settimanali nel nostro studio, per le strade, per i campi.
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Un parroco non deve aver fretta quando esce di casa. C’è il povero che ha bisogno del nostro saluto: il
bambino di una carezza: la mamma di un conforto... che può essere solo una richiesta: «E il vostro
figliolo ha scritto?».
Se non è preparato così, il nostro colloquio domenicale ai piedi dell’altare rimane qualcosa di troppo
freddo, di troppo... liturgico. E la gente non capisce, perché la gente non può capire un sacerdote che,
invece di distaccarsi soltanto «ab homine iniquo et doloso», si è distaccato dall’uomo che fatica, tribola
e soffre.
Più che delle pretese verso la nostra gente, dobbiamo riconoscere che abbiamo dei torti: e il primo è
appunto questo, di aver avuto una settimana troppo comoda, mentre loro hanno lavorato da tirarsi il
collo.
Sono in debito verso la mia gente, oltre che verso il Signore, la Madonna e i Santi, e domando perdono
anche a loro... «et vobis, fratres».
Perdono di non averli sempre capiti, perdono di non averli sempre trattati con bontà, perdono di non
aver sofferto come essi soffrivano...
Ho bisogno di essere perdonato anche dal mio popolo per poter salire l’altare con minor confusione.
«Kyrie, eleison; Christe, eleison...».
Sulla nostra solidale povertà, la misericordia del Signore stende immediatamente le sue braccia.
«Dominus vobiscum».
È il primo saluto domenicale alla nostra gente, in compenso dei saluti mancati, o sgarbati, o frettolosi,
con cui abbiamo risposto durante la settimana.
Non sono un liturgista e dico cose sciocche: ma io vorrei un «Dominus vobiscum» largo, a braccia
piene, così che tutti vedano la nostra cordialità espansiva, che non lascia fuori nessuno.
Pio XII, quando benediceva, aveva il segreto di questa paterna vastità: e tutti ne sentivano il fascino,
come dell’abbraccio di Cristo in croce.
La stoltezza di un tal gesto non la può capire uno che non ha il cuore su tutte le strade.
E nel salutare, non abbassiamo gli occhi. Guardiamo in faccia i nostri figlioli. Come salutare senza
guardare? È vero: gli occhi sono la porta del male, ma sono pure la porta del bene, per dove passa la
pietà. Non ci dobbiamo preoccupare del male quando stiamo facendo il bene.
Forse, ci rattristeremo vedendo che là, in fondo la chiesa, i giovani discorrono invece di pregare, che i
fanciulli sono irrequieti nei loro banchi.
Io ho gusti strani: mi piacciono le chiese vive, un po’ mosse. Penso che anche il Signore non ne sia
malcontento. Non ch’egli li approvi - neanch’io, del resto, li approvo - ma son fatti così e nessuno ha
loro insegnato con bontà come bisogna stare davanti al Signore. E poi, sono tanto stanchi, hanno
lavorato tanto e possono starci alla buona al cospetto di Dio.
«Oremus».
Comincio a pregare. Per tutti.
Non so il vero significato della parola «colletta». Lo penso alla mia maniera: raccogliere e far propria, in
nome di Cristo, l’incomprimibile voce di tanti poveri cuori che non sanno parlare. Il parroco coordina
questo dolore muto, queste incomposte fatiche, queste segrete rivolte e le esprime davanti al Signore
con la sua voce. Gliele dà. Con tali sentimenti è naturale che l’«oremus» venga detto o salmodiato meno
sgarbatamente. Ci vuole una mano lieve e un tono dolce per chi soffre.
Il Vangelo.
Non vi siete mai chiesti perché nella Messa nulla è lasciato al nostro arbitrio, all’infuori dei nomi del
«memento»? Tutto è fisso, ogni capriccio è impedito. Nella Messa il sacerdote non è un inventore, ma
un ripetitore.
Gesù ordina agli apostoli: «Andate e dite». Il Vangelo è appunto una continua ripetizione di «dite».
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Devo quindi leggere la Messa e il Vangelo com’è. Anche il Vangelo detto alla balaustra o sul pulpito.
Quando predico alla mia povera gente sono il ripetitore della parola di un altro: devo ripetere quel
che Gesù ha detto: non il mio Vangelo ma il Vangelo di Gesù.
Una delle tentazioni più forti di un parroco alla Messa domenicale è di leggere, invece del Vangelo
secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni, il Vangelo «secondo il parroco». Con ciò non intendo dire che
io non debba mettere nel Vangelo la mia anima, il mio cuore, ma semplicemente che con la scusa del
Vangelo, io non posso presentare alla mia gente, che è la «plebs sancta», i miei sfoghi, le mie
rampogne. Se gli altri saranno giudicati sul secondo comandamento «Non nominare il nome di Dio
invano», noi saremo giudicati sul Vangelo, poiché anche il Vangelo è uno dei nomi di Dio e il più bello.
Il Vangelo è la «buona novella», la parola che libera, che solleva: non la parola che opprime.
Povera la nostra gente, già tanto oppressa e insultata e maltrattata lungo la settimana! Un po’ da tutti:
dal padrone, dall’impiegato, dal gerarca.
Facciamo che alla Messa essa senta che il parroco non è un padrone. Il Signore è venuto tra i suoi come
un servitore: gli apostoli sdegnarono di fare da padroni. Erano uomini liberi e quindi rispettosi della
libertà e della dignità degli altri, specialmente degli «ultimi» che nella casa del Padre sono i «primi».
Facciamo da padroni noi preti quando chiediamo alla nostra gente una perfezione che non può
raggiungere, una generosità che noi stessi non sentiamo, un distacco che non trova aiuto nel nostro
esempio. Il Vangelo, prima di predicarlo, bisogna farlo passare attraverso la nostra povertà, allora la
nostra voce avrà un tono diverso.
Offertorio.
Forse anche da voi c’è la bella abitudine, alla mietitura e alla vendemmia, di far portare dai bambini
spighe e grappoli per l’offerta all’altare.
Vedo la mia chiesa come un campo di grano o dei filari che salgono verso l’altare.
Proprio il pane ed il vino che tengo in mano in questo momento sono il frutto della terra lavorata dal
mio popolo: la sua fatica che sta per essere riposata in un misterioso incontro col Signore. Io ho in
mano tutta la fatica della mia povera gente che sale verso un incontro di grazia. Il primo incontro, tra
l’uomo che lavora e Dio che benedice, è avvenuto sul campo. Sull’altare, attraverso il mistero della
transustanziazione si completa l’incontro nella presenza sacramentale.
Mi piace, a volte, guardare la Messa sotto aspetti «non contemplati».
La patena non pesa, eppure, nella Messa solenne, il diacono ci aiuta a sorreggerla. Sulla patena c’è il
nostro pane, la fatica e la sofferenza di tutto un popolo.
Ormai sapete che amo i gesti larghi, che sono i veri gesti sacerdotali.
Io ho bisogno di una famiglia. La domenica, la voglio tutta presente all’altare: voglio che sappia che
questa è la sua Messa. Voglio tutti presenti: vicini e lontani, perduti e ritrovati.
Mi chino sul pane e il vino che m’hanno posto tra le mani e ripeto le parole divine. Per queste parole
ripetute tremando dal più povero dei preti nella più povera delle chiese, Cristo prende posto tra la mia
gente e con la sua presenza cambia volto ad ognuno.
Dilato nuovamente le braccia, di più, sempre di più. Non siamo più orfani: c’è il Fratello, il Maestro, il
Pastore. Non sono più solo all’altare, c’è Cristo con me. E se c’è lui, che è la Vita, posso chiamare anche i
morti e fare della mia piccola chiesa una chiesa senza termine nello spazio e nel tempo, e rivolgermi al
Padre che è nei cieli con confidenza nuova e sicura: «Padre nostro».
Sto sospeso un attimo con il frammento del Pane sull’orlo del Calice. L’odio, nel mondo, è tanto: ma
l’amore è più grande. «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo donaci la pace». Un’altra volta vince
l’Amore che si lascia spezzare. In pace anche con me. Eccolo, viene in me.
La comunione.
La comunione è il momento più caro, più impegnativo.
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Alla Messa parrocchiale nessun fedele prende la comunione1. È troppo tardi. Io solo ricevo Cristo e lo
ricevo per tutti.
Per me, la Messa durante la quale non scendo dall’altare per fare la comunione a qualcuno, è la Messa
più impegnativa. Ricevo e porto Cristo per tutti quelli che non lo ricevono e non lo portano: divento
responsabile nella mia comunione di tutti coloro che non hanno potuto comunicarsi.
Se durante la settimana i miei parrocchiani verranno a chiedermi esempio, conforto, carità e mi
troveranno vuoto, essi potranno chiedermi: «Che ne hai fatto del Cristo che è venuto in te sotto i nostri
occhi?».
Mezzogiorno è suonato: la gente brontola se non finisco presto: i fanciulli sono stanchi.
Comincio a coprire il calice in fretta...
«Ite, missa est».
Son parole che il parroco, la domenica, dice col cuore grosso.
Li avevo appena ritrovati e debbo subito congedarli. Li guardo partire. Sono come uccelli migratori:
hanno bisogno di andare.
«Ite». Li accompagno col mio cuore facendomi prestare, con un gesto che misuro sulla grande croce che
domina l’altare, la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo per essere con loro ovunque la
vita li porti.
Quando sono in sacrestia, sento che la mia spirituale paternità ha avuto nella Messa parrocchiale il suo
vertice e la sua più alta gioia, e mi dispongo, con fiducia, alla fatica settimanale aspettando la nuova
domenica: il ritorno.
                                                               don Primo Mazzolari, La parrocchia, 99-107

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