venerdì 5 novembre 2010

Ma certi attimi si ha paura: non di qualcosa, ma paura e basta...La paura di chi nell'esistenza non ha innestato un senso al suo vagare.


Un crisantemo sulla tomba e una lacrima sul viso. Celebre quell'espressione dell'Ungaretti poeta: "Si sta come, d'autunno, sugli alberi, le foglie" (Soldati, 1918).  Foglie che ingiallite cadono. Terra strapazzata e ferita dall'aratro, Castagne copiose nella fornella dell'appassionata massaia. E poi i colori caldi dei boschi, l'aria profumata delle vallate, l'alternarsi di tramonti rossastri e di albe lussureggianti. E qualche fiocco di timida neve. E' l'autunno della natura che tanto somiglia all'autunno della vita: forze che vacillano, pensieri che s'impigriscono, eco di antiche nostalgie. Il tocco di una campana, magari lenta, incupisce il cuore e rende malinconico il volto. Perchè ci ricorda che, nonostante tutto l'apparire, quaggiù è sempre e solo una terra di passaggio, zona d'allenamento, occasione di prova.
E' lassù la casa.
Un genio l'uomo: dalla ruota alla polvere da sparo, dal bacillo dell'aviaria alla luce, dalla "particella di Dio" alla macchina a vapore, dalla fotografia alla scrittura, tutto porta la sua firma. La sua appassionata ricerca delle leggi che regolano la musica del Creato. Nei laboratori l'uomo studia, s'arrovella, si stupisce. Nelle fabbriche lavora, guadagna, progredisce. Nelle chiese prega, s'accomuna, elargisce. Nelle case litiga, progetta e s'impoverisce. L'uomo può tutto: camminare, correre, saltare. Giocare, pensare, stupire. Crescere, diminuire, battagliare. L'uomo è potenza perché tutto sembra ai suoi piedi. Poi basta un tocco lento di campana per ficcargli nell'anima faticosi punti interrogativi: che senso ha vivere, faticare, sudare se poi tutto scompare? Sono bello: ma morirò. Sono ricco: ma finirà. Sono un genio: ma passerò. Perché tutto scomparirà.

E l'uomo - anticaglia uscita perfetta da Mani di Genio Innamorato - trema. Pensa, riflette, ha paura. Illusosi d'aver strappato all'Eterno l'immortalità, avverte l'angoscia dell'inedito, dell'imprevedibile. Le notizie giornalistiche parlano di città che s'attrezzano per formare operatori funebri, gente che aiuti a metabolizzare lo shock. Imprese funebri che s'accaparrano modelle svestite per abbellire la morte. Accanimenti paurosi per cercare di dribblare ciò che, inizialmente, era la nascita verso l'Eterno. Verso la pienezza. Verso la Gioia. Ricordo da bambino le lunghe veglie funebri con il defunto tenuto in casa. E coi bambini si pregava, lo si vegliava, gli si stava vicino nell'ora del passaggio. Tra canti, preghiere e litanie gli occhi dei piccoli apprendevano una legge bella, di vita, colorata: quasi uno squarcio di luce lanciato verso il cielo. Attimi di anticipata eternità. Perché - vite povere in esistenze ricche di cielo - l'Eterno era il premio, l'approdo, il senso di una vita. Oggi la morte fa paura. Così paura che, per paura, non se ne parla più. E così la paura cresce, monta, s'ingigantisce. La paura diventa angoscia. "Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci" (B. Pascal). Angoscia di una linea di febbre, di un cielo minaccioso, di un suono forestiero. Di uno sguardo, di uno sconosciuto accanto, di una mano troppo fredda. Ci pensavamo dèi: ci vediamo uomini sganciati da Dio. Uomini che corrono, imprecano e dimenticano per paura di pensare. Ma perché correre se non si sa dove andare? Sulla memoria del fratello morto, Foscolo tratteggiò l'amara consapevolezza dell'umana fatica: "Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, mi vedrai seduto sulla tua pietra..." (In morte del fratello Giovanni). Della morte nutriamo riverente spavento: in realtà tanti sono già morti. Non nel fisico, magari, ma nell'anima le esequie sono terribili: giovinezze spente, amori infranti, sogni lacerati. Tradimenti, disillusioni, sospetti. Maldicenze, voltafaccia, inganni. Sta decedendo lo stato, la democrazia, la finanza. Dio urla, sussurra, agisce: ma l'uomo corre. Dio tenta l'appostamento: l'uomo Lo sposta, Lo evita, Lo irride. Dio l'attende al varco: l'uomo è angosciato.
E' il buio che fa paura al bambino. E' l'esame che terrorizza lo studente. E' la malattia che intristisce la mamma. E' la solitudine che impensierisce il nonno. Ma certi attimi si ha paura: non di qualcosa, ma paura e basta. L'angoscia del vivere, dell'essere abbandonato. La paura in cui l'Amore non riesce più ad entrare. La paura di chi nell'esistenza non ha innestato un senso al suo vagare.
L'Uomo della Croce un giorno ebbe a dire: "Chi vive e crede in me non morirà in eterno" (Gv 11,26). Non è promessa che eviteremo la morte. Ma molto di più: è certezza celeste che la morte della creatura non sarà più assurda e insignificante. Non sarà tolta. Ma semplicemente trasformata. Perché il sogno di Dio è di riabbracciarsi commosso con le sue creature.

Peccato aver voluto duplicare il brevetto di Dio sulla morte. Ne è uscita un'occasione d'angoscia. Quando la sua era spazio di vita. Eterna, tra l'altro.

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