martedì 28 settembre 2010

potere di orientare all’ottimismo autenticamente inteso


“Con te ha inizio una nuova generazione nella nostra famiglia. […] Tu sarai capofila di una nuova generazione e sarà l’incomparabile ricchezza della tua vita poter vivere una buona parte di questa insieme con la terza e quarta generazione che ti ha preceduto. Il tuo bisnonno potrà raccontarti ancora, avendoli incontrati personalmente, di uomini nati nel XVIII secolo, e un giorno, molto dopo l’anno 2000, tu rappresenterai per i tuoi discendenti il collegamento vivente con una tradizione orale di più di 250 anni – tutto ciò sub condizione Jacobea, cioè: ‘se Dio vuole, e ci dà vita’. Perciò la tua nascita costituisce per noi un’occasione particolare per riflettere sul mutamento dei tempi e per tentare di riconoscere il profilo del futuro”.
Comincia con queste parole una lunga lettera scritta da Dietrich Bonhoeffer a suo nipote in occasione del battesimo del piccolo. Era il maggio 1944, e Bonhoeffer si trovava, ormai da più di un anno, nel carcere di Berlino Tegel. Verrà giustiziato nel campo di sterminio di Flossenbürg un anno dopo, il 9 aprile 1945, per aver partecipato alla congiura che tentò di mettere fine al regime sanguinario di Hitler.
Alla base della riflessione di Bonhoeffer sta la consapevolezza che le relazioni che sorreggono la nostra vita superano e spezzano i confini del presente. In un tempo nel quale tutto sembra appiattirsi sull’oggi, concepire la propria vita come un “ponte” fra generazioni distanti fra loro oltre due secoli è una prospettiva per noi davvero rivoluzionaria. E lo è soprattutto perché recupera il valore della memoria orale, del racconto, della testimonianza affidata, accolta e poi ritrasmessa.
Ciò che colpisce non è solo il valore straordinario assegnato alla narrazione in un processo di trasmissione della conoscenza, ma anche la funzione di mantenimento dell’appartenenza che questa narrazione sostiene. Essere “collegamento vivente con una tradizione orale di più di 250 anni” significa accettare le proprie radici, comprenderle, capirne l’importanza per la propria formazione, e accettare così di averne cura. Significa, in altre parole, 
- sentirsi parte di una storia e non di un’altra, 
- comprendere meglio se stessi, il proprio posto nel mondo e il senso della propria relazione con l’altro 
- e, soprattutto, capire quali siano le radici della propria visione del mondo.
Devo dire che questo sentirsi parte di una storia che ci trascende è uno degli aspetti che mi colpiscono maggiormente nelle parole di Bonhoeffer, perché ho l’impressione che uno dei caratteri più vistosi delle relazioni umane in Occidente sia oggi quello di aver perso proprio questa consapevolezza.
Molto spesso, parlando del rapporto fra generazioni e in particolare del mondo giovanile, si mette in luce al contrario la difficoltà a concepire la propria vita nello scorrere del tempo, quasi che si possa vivere senza curarsi del proprio passato e del futuro che ci aspetta. Le ragioni di questa profonda incapacità di coltivare la memoria rimangono complesse.
Non so se una tale eclissi sia stata causata in Occidente dall’espansione delle tecnologie, che rendendo tutto disponibile in tempo reale hanno annichilito il senso del trascorrere del tempo. O se si tratti invece di una conseguenza della cultura del consumo, che considera ciò che sta nel passato come un “intoppo” da superare cancellandolo definitivamente dall’orizzonte. O, ancora, non so se la fine di questa potenza creatrice della memoria non sia la conseguenza di una trasformazione profonda della famiglia, che cessa di essere percepita come la ‘casa’ nella quale convivono generazioni diverse. Che sia l’una o l’altra di queste ragioni, poco importa: la sostanza è che in generale al passato si chiede di rimanere al proprio posto.
...
Il ponte fra le generazioni cui accenna Bonhoeffer non è però un ponte chiuso sul ‘privato’, legato unicamente alla propria vicenda personale. Di fatto esso mette in collegamento pagine di storia, orizzonti globali, e permette quindi non solo di comprendere se stessi, ma anche di comprendere il mondo degli altri e più ampiamente i processi storici.
... la consapevolezza di quanto si è ricevuto spinge a trasmettere ad altri ciò che si considera un’eredità che non deve andare perduta, ma anche perché la cura della memoria stimola capacità critiche e conduce così a immaginare il domani, senza rimanere in passiva attesa. Questa “operosità” che deriva dalla custodia della memoria è contrassegnata da un profondo ottimismo sulla possibilità di incidere nel corso degli eventi.
Annotava in proposito Bonhoeffer nel Natale 1942: «L’essenza dell’ottimismo non è guardare aldilà della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé.
Esiste certamente anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere bandito. Ma nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all’errore; perché esso è la salute della vita, che non deve essere compromessa da chi è malato.
"Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono, nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo, alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore".
È questa la prospettiva nella quale prende senso e valore la memoria: nel suo potere di orientare all’ottimismo autenticamente inteso. In tal senso, il pericolo di una generazione di padri e di figli senza memoria è quello di veder crescere generazioni senza passioni “costruttive”, contrassegnate più dalla malinconia e dalla noia che dal senso di responsabilità.
Per questa ragione si dovrebbe recuperare il valore esistenziale, e storico, dell’essere ponte fra le generazioni.

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