giovedì 12 agosto 2010

Un progresso civile basato soprattutto sulle trovate del marketing mostra la sua debolezza

Dieci anni dopo. No Logo e il politically correct
Scriptorium - BorderLine
Scritto da Marco Mancassola   
giovedì 24 giugno 2010
Esattamente dieci anni fa usciva “No Logo” di Naomi Klein. A pensarci era davvero un’altra epoca: in un decennio in cui sembra che nulla sia successo, la verità è che fin troppo è successo. Ricordo che lo leggevo nel luglio del 2001, un’epoca in cui quel libro era di moda, bibbia della critica all’impero del marketing. Ricordo che lo leggevo anche durante un certo viaggio in treno. Se ricordo bene, era il capitolo dedicato al politically correct. L’autrice si chiedeva in sintesi: dov’eravamo noi mentre tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta il liberismo compiva nuovi insidiosi passi, e il marketing invadeva ogni sfera delle nostre vite?

La risposta di Naomi Klein era che la gente della sua generazione, che nel periodo citato andava all’università, era impegnata a elaborare il politically correct: impegnata a lottare perché i gay e le minoranze razziali fossero rappresentati nel modo giusto nei film di Hollywood, a scrivere petizioni perché le lesbiche non venissero offese su qualche giornale o perché il linguaggio della tivù non offendesse gli abitanti dei ghetti neri. Un’intera generazione, insomma, era impegnata su questioni di rappresentazione: impegnata a lottare per come la realtà doveva essere descritta e rappresentata, molto più che per la realtà stessa. L’impegno politico abbandonava le lotte concrete e si dedicava alla critica del linguaggio: tendenza che all’epoca dell’uscita di “No Logo”, allo scadere del millennio, mostrava ormai i suoi limiti, con l’intellighenzia di sinistra impegnata a scannarsi su faccende sempre più marginali, mentre la realtà galoppava indisturbata per conto suo. Il marketing nel frattempo si era appropriato, con la solita scaltrezza rapace, anche delle retoriche della diversità: dai cataloghi multirazziali di Benetton agli spot con coppiette gay dell’Ikea.

Dieci anni dopo le riflessioni della Klein, è interessante vedere come si sono sviluppate le cose. Bisogna ricordare, anzitutto, il non trascurabile fatto che un uomo di colore sia arrivato alla Casa Bianca: il politically correct ha portato un’ambigua varietà di frutti, forse non tutti così avvelenati. Da un altro lato, la celebrazione felice delle diversità e del rispetto reciproco ha iniziato a scricchiolare sotto l’onda d’urto della crisi. Un progresso civile basato soprattutto sulle trovate del marketing mostra la sua debolezza. Ci hanno insegnato che l’identità è un vestito da mettere e togliere e scambiare allegramente, ma cosa succede quando iniziano a mancare i vestiti?

Riprendendo i ricordi, il viaggio in treno in cui leggevo quel capitolo della Klein mi stava portando a Genova per il famigerato G8. Grazie a contributi come quello della Klein, pensavamo fosse ora di tornare a occuparci della realtà, oltre che del linguaggio. I manganelli della polizia e, due mesi dopo, il crollo di due torri in terra americana, ci sbarrarono la strada in modo brusco.


[«Redemption Books» è la rubrica di Marco Mancassola sui libri di culto del Novecento pubblicata sul magazine di design-moda-arte Made With Style. Questo testo è stato originariamente pubblicato sul numero di aprile-maggio 2010. web: marcomancassola.com]

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