lunedì 12 luglio 2010

So ben poco. Ciò che mi hanno insegnato e le mie esperienze personali bastano appena per un pugno di verità

Kajetan Kovič
Scrivere è l’esortazione a non dimenticare chi si è, soprattutto nel momento in cui ci si affaccia pericolosamente sul bordo di un precipizio che, se affrontato con coraggio, non si apre nel vuoto assoluto.

      REGOLE DEL GIOCO (Poetica) Bisogna trovare parole cariche di elettricità. Bisogna metterle in fila e trasformarle in batterie. Bisogna convogliare i fiumi e costruire turbine. Bisogna erigere linee di alta tensione. Bisogna commissionare la pioggia. Tutto dev’essere pronto. All’arrivo della grande acqua una poesia vera funziona come una centrale elettrica.
          SOLO COSÌSo ben poco. Ciò che mi hanno insegnato e le mie esperienze personali bastano appena per un pugno di verità. Le ripeto tra la gente che in apparenza la pensa come me, e le colloco tra me e gli altri come uno steccato, dietro cui i miei pensieri particolari si muovono al sicuro. Non temo di parlare in pubblico, ma definire le cose in quanto tali, esattamente, esige forza. Devi essere aperto come una ferita, perché il vero nome delle cose è nascosto sotto il primo, il secondo e il terzo strato delle parole o ancora più in fondo. Non è possibile scavare di continuo nel proprio intimo senza conseguenze durature e inoltre è perfino inutile guidare teste che corrono a vuoto e forestieri, giunti da lontano, attraverso una miniera, ricca di metalli che nemmeno apprezzano. Soltanto per non dimenticare chi sono, e per coloro che senza questo alimento non riescono a vivere, penetro spontaneamente come il simbolico pellicano nel mio cuore tenebroso. Così intendo questo mondo. E non so vivere diversamente. Tutto il resto è sonno e nulla.

     Umiltà e dignità, questi sono i due vocaboli che per primi mi vengono in mente di fronte alla poesia di Kajetan Kovič, uno dei maggiori autori sloveni contemporanei. Come lui stesso afferma altrove, scrivere non è diventare “un sapiente presuntuoso, (ma) restare piuttosto un apprendista fino alla fine”, oppure ancora scrivere come se quello che si deve dire potesse “rimanere / anche non scritto”.
     Illuminanti a questo proposito sono le sue Regole del Gioco: la parola ha bisogno del suo significato, ne vive e acquista peso, o – per usare la sua espressione – “elettricità”, ma non è l’autore che può conferirgliela. A lui spetta invece il compito di preparare ed incanalare tutto, di restare in ascolto, a lui compete la parte che è ricerca ma non in senso stretto creazione. A lui spettano inoltre anche il dolore e soprattutto il coraggio del dolore, perché “devi essere aperto / come una ferita, / perché il vero nome delle cose / è nascosto / sotto il primo, il secondo e / il terzo strato delle parole / o ancora più in fondo.” La lingua è l’attrezzo di un artigiano dove questo termine non ha in sé nulla di diminutivo, in quanto racchiude la comunanza fra costruttore e oggetto costruito, che è appunto la poesia. Per lingua però, nel caso di Kovič, possiamo intendere qualcosa di più vasto dell’insieme delle parole e delle espressioni: viene invece da pensare a un vocabolario interiore, in cui la forma (la parola, appunto) è connaturata al proprio significato e dunque all’uomo che la custodisce, così come la ricerca è un percorso personale prima, molto prima che artistico.
     “Non sei un monumento / ma una formica viva. / E devi portare la tua travicella in capo al mondo. / Tu non sei importante, / è importante la trave. // E forse: il formicaio”. L’umiltà cui accennavo prima ritorna con accezione più vasta e profonda, che sembra negare e annegare la dimensione individuale ampliando la prospettiva verso limiti infinitamente grandi o infinitamente piccoli nello spazio e nel tempo. La prospettiva si disloca e l’uomo diventa più piccolo di una formica, o, come in Epitaffio, “nato chissà quando / e chissà perché”. E non può trovare una prospettiva di realizzazione, come spesso è accaduto, in un sistema (ideologico, politico) che riesca ad operare la somma algebrica del valore dei singoli, così come la morte dei soldati non acquista significato nel concetto di patria che essi hanno difeso.
     Mentre chiude con decisione alcune porte, però, Kovič ne apre altre. “Adesso sai: è così. / Ma non ti butterai a terra / … /perché non sei una bestia / e non sei neanche un mago”. Non sei una bestia, appunto, ma un uomo, e dell’uomo devi cercare la dignità, che risiede nella consapevolezza dell’essere, della finitezza ed al tempo stesso dell’unicità di un mondo che è soprattutto spirituale. Del resto bisogna “commissionare la pioggia” – non aspettarla – se si vuole cercare il vero nome delle cose, il “pugno di verità” che potrebbe appartenerci, senza il quale “tutto il resto è sonno / o nulla”. Scrivere è l’esortazione a non dimenticare chi si è, soprattutto nel momento in cui ci si affaccia pericolosamente sul bordo di un precipizio che, se affrontato con coraggio, non si apre nel vuoto assoluto.  “Costruisco l’edificio dell’anima”, “costruisco la conchiglia dell’essere”, così come ognuno deve costruire la propria, ed è una lotta, sottolinea Kovič, come scalare il cielo. Non ci sono salvezze né terre promesse da raggiungere, se non la certezza di avere conquistato qualcosa di piccolo ed enorme insieme, di inondarsi una sola volta “con il gusto del paradiso”.
(Francesco Tomada)

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