giovedì 29 luglio 2010

Il pensiero «forte» del filosofo «debole»

da http://lettovisto.myblog.it/archive/2010/07/06/il-pensiero-forte-del-filosofo-debole.html#more
...Dove ha trovato la forza, la volontà di superare le diagnosi più cupe che i medici facevano alla sua nascita?
«Credo che al centro della mia battaglia ci siano gli altri e l’umorismo. Ci sono innanzitutto i miei genitori, la prima 'fonte' della mia vita: mia madre, che è ancora viva, e mio padre che oggi non c’è più. Venivano entrambi da un ambiente operaio molto semplice. Senza volerlo, mi hanno mostrato una forma di umorismo che mi impregna ancora oggi. L’umorismo delle piccole cose e dell’autoironia. Ridere di me stesso è uno strumento che mi aiuta enormemente».
Da qui il suo percorso che lei definisce di «battaglia gioiosa» nel mestiere di uomo!
«Sì, è vero. Scrivo anche che l’esistenza procede dalla lotta. Lo so fin troppo bene! Ma oggi rivedrei il senso che do alla parola 'battaglia'. Mi spiego: all’epoca dovevo battermi tutti i giorni e combattere l’handicap.
La mia fortuna è stata che non mi sono mai sentito solo. Ero circondato dai genitori, dai compagni di classe ed era una battaglia per tre motivi. Sul piano fisico, l’urgenza: tutti eravamo 'lì per questo'. Ma anche sul piano della vita in comunità si imparava ad accettare l’altro e a progredire con lui. Infine, nell’adolescenza, la mia battaglia si è trasformata, ha invaso anche il campo spirituale. Obiettivo: cercare di diventare qualcuno di buono…».
Qualcuno di «buono»… Perché questa parola?
«Perché la sentivo a messa da padre Morand, il prete del Centro, e ho avvertito una vocazione a cercare di essere buono e generoso. Ho frequentato a lungo il catechismo, ma non mi ha fatto una grande impressione. Invece l’incontro con quel prete mi ha segnato profondamente. In lui si manifestava tutta un’umanità, predicava con l’esempio. Un giorno sono andato a trovarlo per parlargli di filosofia, di cui aveva una grande conoscenza. Mi ha colpito. Avevo sentito molti discorsi di educatori, ma lui era un vero esempio di bontà, a partire dal sapere. Negli ultimi anni che ho trascorso al Centro mi ha dato strumenti di riflessione per forgiarmi uno spirito critico, mi ha anche insegnato la prudenza nel giudizio sull’altro, soprattutto a non dire sugli altri qualunque cosa. Questa disciplina interiore la percepivo come una gioia perché partecipava davvero alla costruzione del sé».
Il grande pubblico la conosce soprattutto come filosofo, ma lei cammina anche sotto lo sguardo di Dio… 
«Sì, certo, sono stato sempre credente ma a intermittenza. Quando faccio il mio lavoro di scrittore cerco di non ricorrere alla fede perché ciò mi chiuderebbe in una casella,ignaziano in una categoria, come l’handicap. Due anni fa ho seguito un ritiro che mi ha dato una base, con la volontà di approfondire la mia fede e di cercare di viverla tutti i giorni, con maggiore o minore intensità. È stato in Svizzera, al centro protestante di Crêt-Bérard, dove ho scoperto gli esercizi spirituali durante due ritiri di dieci giorni. L’esperienza del ritiro mi è rimasta dentro tutto l’anno. All’inizio il silenzio e la solitudine erano troppo duri per me. In precedenza avevo partecipato a sessioni d’ispirazione orientale, ma il ritiro ignaziano mi ha colpito perché mi ha dato delle risorse».
Quali?
«Ho preso coscienza del concetto di vocazione. È bella, la vocazione, perché non è un sogno a lungo termine o uno scopo, ma è porsi la seguente domanda: 'A che cosa mi chiama oggi Dio?'. Così ho capito di avere tre vocazioni: di scrittore, padre di famiglia e persona disabile. L’ultima non l’ho davvero scelta, ma oggi mi chiedo piuttosto cosa posso vivere 'grazie' a queste tre vocazioni».
Com’è cambiata la sua vita quotidiana?
«Tre volte al giorno mi concedo momenti di meditazione, di preghiera, allo scopo di ritornare all’essenziale e di integrare alla mia giornata le mie tre vocazioni. Per preparare la giornata, al mattino, comincio rivolgendomi direttamente a Dio. All’ora del riposo pomeridiano mi prendo un altro momento di meditazione, per non lasciarmi travolgere dalle attività, e poi la sera rileggo la mia giornata e preghiamo, mia moglie e io, insieme con i bambini. Non c’è nulla di eccezionale in questo, però è una guida».
L’abbandono è una forma di accettazione dell’handicap?
«È stata Etty Hillesum a riconciliarmi con 'l’accettazione', dopo aver letto il suo libro Una vita sconvolta. L’accettazione, e lei lo dimostra, non è una capitolazione. Oggi sono me stesso in una logica di progresso. 'Che cosa posso mettere in atto?'. Ecco l’interrogativo che nasce quando subisco un duro colpo. Nella sofferenza, senza indurirsi, l’uomo non sceglie una postura rigida, ma sente il comandamento della vita: fare di tutto per salvaguardare la gioia e condividerla. Per Etty Hillesum l’abbandono non è rassegnazione, è invece diventare più vivi. Più di ogni cosa, voglio alimentare la mia gratitudine d’avere la temibile fortuna di vivere. Quello che resta duro da accettare è che il mio handicap resterà una difficoltà che mi seguirà per tutta la vita, con fatica, certi giorni con dolore… Ma soprattutto non potrò mai dire 'è passato', no…, l’handicap richiede perseveranza. Se si conta troppo sulla propria volontà, sulla ragione, su se stessi, si diventa esausti. Non ci si può far carico dell’handicap una volta per tutte, bisogna assumerlo ora per ora, giorno per giorno».
Che cosa le ha fatto deporre le armi?
«La nascita di mia figlia Victorine, quasi 5 anni fa. Lei è stata la prima cosa che mi è stata data senza combattere. Imparare la felicità gratuita per me è stato davvero uno shock. Anche se resta una felicità fragile perché l’idea di perdere i figli è un’angoscia assoluta per ogni genitore. L’amore e la dolcezza… C’è qualcosa di inaudito che non rientrava nei miei riferimenti abituali. Mi sono trovato impreparato di fronte a tutta questa sensibilità da sviluppare. Per me era quasi dolorosa, quest’assenza brutale di battaglia, ma a poco a poco ho compreso che non era rassegnazione.
In realtà, se si educano i figli o una persona sofferente alla battaglia, questa diventa il centro della vita ed è molto pericoloso. Perché la battaglia dev’essere per la vita! Il centro della vita è la vita!».

Alexandre Jollien ha firmato tre libri, di cui uno gli è valso un riconoscimento – il «Prix Mottart» – della prestigiosa Académie française. Dopo 17 anni passati in un centro di riabilitazione e gli studi in un istituto commerciale, si è laureato all’università di Friburgo, dove ha avuto come docente il noto medievalista Rudi Imbach. Nel frattempo ha compiuto anche un soggiorno di ricerca al celebre Trinity College di Dublino. Alexandre Jollien, nato nel 1975, si dedica oggi a tempo pieno all’attività di scrittura e alla ricerca filosofica. In italiano ha pubblicato «Elogio della debolezza» e «Il mestiere di uomo», entrambi per i tipi delle Edizioni Qiqajon della Comunità di Bose. Quindi, di recente, «Cara filosofia. Lettere di un giovane filosofo ai grandi maestri» (Colla Editore). Tiene regolarmente una rubrica sul quotidiano locale svizzero «Le Nouvelliste»; qualche anno fa ha tenuto una conferenza al Festivaletteratura di Mantova.

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